Non serve essere degli esperti di tattica per osservare che, dai tempi del Barça tiqui-taca, il gioco di Guardiola è cambiato moltissimo. Si è evoluto, è pensato e interpretato meno dogmaticamente, la palla corre orizzontale ma va anche molto veloce per accelerazioni verticali (e qui forse c’entra Jürgen Klopp, ma non ditelo al catalano), cunicoli ma anche corridoi insomma, davanti il suo City gioca col 3-1, coi 3, con una punta vera, senza punte, con una manciata di elementi chiave che si muovono in maniera indifferente fra centrocampo e attacco, fra esterno alto e area di rigore, cambiano posizione spesso a seconda delle fasi di gioco, anche all’interno della stessa partita. Nel match perso col Lione in Champions ha addirittura iniziato difendendo a tre.
I guardiolisti ortodossi, insomma, sono forse dove Guardiola era qualche anno fa. Ma è solo Pep a essere diventato meno rigido, con la sua giusta ossessione nei confronti di chi è riuscito negli anni ad anticiparne obiettivi di campo e geometrie che inevitabilmente rende la sua squadra mutevole e il meno possibile simile alla partita precedente, o forse tutto questo ci dice anche qualcosa di una nuova generazione di calciatori? Perché Guardiola è la punta di un iceberg di tecnici sempre più refrattari a parlare di moduli e schemi, specie in sede di mercato e ricerca di nuovi elementi, e sempre più interessati a caratteristiche come l’occupazione degli spazi, la capacità di recupero palla, l’attitudine, la possibilità di fare più ruoli, più fasi, di interpretare il ruolo difensivo in maniera offensiva e viceversa. E altre cose così.
Non mi addentro in questioni troppo da addetti ai lavori, non essendolo. Interessante piuttosto, da osservatore, da tifoso, da appassionato, da commentatore, riflettere su come forse stiamo usando dalle categorie passate per raccontare il calcio e soprattutto i calciatori di oggi e di domani. Di McKennie, il talento americano arrivato a sorpresa alla Juventus, ad esempio tutti sappiamo che è un grande recuperatore di palloni, abbiamo le chat, noi juventini, piene delle sue statistiche in Bundes, ma nessuno sa esattamente in quale ruolo, negli undici omini che tutti abbiamo in testa, giocherà esattamente. Regista? Mezzala? Mediano? Ma è davvero così importante? Nel senso, non è che forse siamo nel mezzo di un processo evolutivo che sta portando allenatori e giocatori da un’altra parte?
E ancora: sono i campioni ’98, ’99, 2000 e oltre che si stanno adattando alle esigenze di un paio di generazioni di nuovi allenatori o viceversa? È nato prima De Bruyne (guardate la sua heat map – la mappa che mostra in che zone di campo gioca di più – dell’ultima stagione: letteralmente ovunque, indifferentemente da dove sia chiamato a partire) o il nuovo Guardiola? Non lo sappiamo, ma è indubbio che il modo in cui valutiamo e definiamo i giocatori stia cambiando. E forse questo porterà anche noi appassionati a usare altri parametri, al di là della tecnica e della posizione nell’undici di partenza, per giudicare e definire i nuovi calciatori.
Altro esempio, ma è uno per mille: Mason Mount, ventuno anni, astro nascente del Chelsea di Frank Lampard (un altro che pensa calcio decisamente cross category secondo le nostre capacità di lettura standardizzate). Centrocampista ok, ma mezzala? Centrale? Fisico? Tecnico? Avanzato? È un punto fermo del Chelsea del prossimo lustro, siamo tutti d’accordo, ma nemmeno dalle parti di Stamford Bridge sanno esattamente dove collocarlo.
A tal punto che lo stesso sito ufficiale del club, qualche mese fa, ha chiesto a Mount quale fosse il suo ruolo preferito, visto che ne ricopre molti (noi Generazione X vogliamo sapere se sei Gattuso, Nedved o Zidane! Ok boomer). La sua risposta: «Mi sono sempre visto come un 8, perché mi piace anche l’altro lato del gioco, non solo attaccare e impostare. Ho giocato da 10 nella mia carriera; sono sempre stato un po’ in mezzo alle due cose e adesso onestamente mi è indifferente». E se è indifferente a lui, forse dovrebbe iniziare ad esserlo anche un po’ a noi. Che pensiamo di sapere sempre tutto, ma che, mai come oggi, siamo probabilmente parecchio indietro rispetto al nostro gioco del cuore.