Il mito dell’Athletic Bilbao con soli giocatori baschi sta vivendo la sua fine?

L'attuale crisi di risultati e la mancanza di prospettive mettono in discussione la storica politica di mercato fondata sull'autarchia. 

«È il momento di aprire il grande dibattito». Lo ha scritto, parafrasando un po’, Txelu Noriega, contributor de El Desmarque. Perché mai come oggi l’Athletic Club deve fare i conti con un problema di carenza di risultati e, ancor più, di gioco: tre punti in quattro partite, penultima posizione in classifica. Parliamo di una squadra che milita in prima divisione dal 1928, anno di fondazione del campionato spagnolo a girone unico, e che solo due volte nella storia è stata veramente vicina alla prima, clamorosa retrocessione.

Il ‘grande dibattito’ è quel tema mai affrontato che da anni ormai gira attorno al club di Bilbao, come uno spettro nefasto. È dal 1912 che l’Athletic Club accetta nella sua squadra solo giocatori baschi, ma si fa sempre più strada l’idea che questo atteggiamento, oggi, sia divenuto anacronistico. Ai profani potrà sembrare una decisione abbastanza semplice da prendere, visti i recenti risultati: l’anno scorso, i baschi hanno chiuso la Liga all’undicesimo posto; è dal 2014 che non arrivano tra le prime quattro, e prima di allora l’assenza dai vertici – ossia dalla Champions League – durava dal 1998. Ma la tradizione dell’Athletic ne ha fatto uno dei club più iconici del mondo, e ha profondi risvolti politici, visto ciò che rappresenta l’indipendentismo basco nel discorso pubblico spagnolo.

Quando la regola fu approvata, non erano pochi i club nel mondo a fare affidamento solo sui talenti locali, ma negli anni le cose sono cambiate. Durante la dittatura franchista, l’Athletic divenne il principale baluardo per la difesa dell’identità basca; poi, il suo valore è divenuto quello di resistenza contro i cambiamenti del mondo del calcio e lo sviluppo di un business sempre più invasivo e da molti ritenuto contrario agli interessi dei tifosi. L’autarchia basca, a lungo, ha dato i suoi frutti. L’Athletic Bilbao non è solo uno dei tre club spagnoli – assieme a Barcellona e Real Madrid – a non essere mai retrocesso, ma ha anche vinto diversi titoli. Negli anni, ha mantenuto quello che è uno dei vivai migliori al mondo per livello medio e si è imposto come il club di riferimento di una regione che travalica i confini spagnoli – il paese basco vero e proprio occupa anche parte della Francia. Ed è indubbio che molto del successo di cui gode oggi sia dovuto quasi esclusivamente alla sua politica. Non si tratta solo di modificare una regola, ma di stravolgere totalmente la filosofia e la storia della società, e il suo rapporto col territorio a cui si rivolge.

Dalla parte dei tradizionalisti, pende un fatto indiscutibile: i Paesi Baschi sono la zona della Spagna che da sempre produce il maggior numero di calciatori di alto livello. Nella nazionale del 1934, la migliore Spagna della storia dei Mondiali fino al trionfo del 2010, erano dodici su ventidue convocati, e l’Athletic Club era la squadra che dominava il calcio locale; nei decenni successivi, la regione basca è stata talmente prolifica da sostenere addirittura due club di prima fascia (l’altro è la Real Sociedad), che all’inizio degli anni Ottanta arrivarono addirittura a vincere quattro campionati consecutivi, due a testa.

La forza del calcio basco, però, adesso è parte del problema. Attualmente, sono cinque i club della regione a militare in Liga (Athletic, Real Sociedad, Alavés, Eibar ed Osasuna), e ciò significa che, se prima l’Athletic Club aveva di fatto un solo avversario per il controllo dei talenti locali, oggi ce ne sono quattro. Tanto che, al momento, i giovani più interessanti ce li hanno a San Sebastián, e non a Bilbao – Mikel Oyarazabal, Igor Zubeldia, Ander Barrenetxea, Roberto López, Martín Zubimendi. L’Athletic è decisamente il club più ricco della cinquina, ma ora si ritrova paradossalmente a essere quello posizionato peggio in classifica.

Iker Muniain è una delle promesse non mantenute dell’Athletic: doveva diventare un campione di livello europeo, a 27 anni è rimasto confinato nella sua dimensione ed è diventato il capitano della squadra, dall’alto delle sue 425 presenze in tutte le competizioni, con 60 gol segnati (Juan Manuel Serrano Arce/Getty Images)

L’evoluzione del business del calcio e la sentenza Bosman del 1995 hanno cambiato le cose per tutti i club che puntavano sui settori giovanili, ma l’Athletic è stato quello che meglio di tutti vi ha fatto fronte, proprio grazie al suo forte spirito identitario. Casi di giovani fuggiti anzitempo, come Fàbregas e Piqué, qui non si sono verificati mai, anzi un grande campion come Joseba Etxeberria sceglieva di lasciare la Real Sociedad a 18 anni per giocare in biancorosso, restandoci per tutta la carriera e rinunciando a tante offerte di grosso valore.

Il ‘grande dibattito’ è stato sempre rimandato, mitigato da piccole correzioni di rotta. Il club si è via via aperto a un concetto di “basco” molto più ampio: prima agli stranieri figli di baschi (il venezuelano Fernando Amorebieta e il riojano Fernando Llorente, nel 2005), poi ai baschi figli di stranieri (l’angolano Jonás Ramalho, nel 2011, e il ghanese Iñaki Williams, nel 2014), e infine ai nipoti di baschi (l’aquitano Aymeric Laporte, nel 2012). E ogni qualvolta le cose andavano male, l’Athletic è stato capace di reagire: nel 2011 scommise su Marcelo Bielsa, che donò alla squadra un gioco spettacolare conducendola a una doppia finale di Coppa del Re ed Europa League. Più di recente, Ernesto Valverde è arrivato a vincere la Supercoppa spagnola del 2015, primo trofeo dopo trent’anni di digiuno. E teoricamente poteva andare così anche lo scorso anno, quando i ragazzi di Gaizka Garitano, undicesimi in Liga, potevano conquistare la coppa nazionale. Ma la finale – un attesissimo derby contro la Real Sociedad, che nel frattempo sta vivendo un momento d’oro, è arrivata sesta nella Liga lo scorso anno e attualmente occupa la terza posizione – non è ancora stata disputata a causa del Covid. E ancora non si sa quando si giocherà.

Iñigo Martínez è l’acquisto più costoso nella storia dell’Athletic Club: per rilevare il suo cartellino dalla Real Sociedad, la dirigenza del Bilbao ha versato 32 milioni di euro (Juan Manuel Serrano Arce/Getty Images)

Si sa che, per una squadra che investe sul proprio settore giovanile, i momenti di crisi sono fisiologici. Il problema semmai è che l’Athletic vive in un paradosso: ha un grande potenziale economico, dovuto alle grandi plusvalenze (nel 2018, Laporte è stato ceduto al City per 65 milioni, e Kepa Arrizabalaga al Chelsea per 80, solo per citare due casi recenti), ma non può reinvestire questi soldi sul mercato, visto che la maggior parte dei talenti baschi disponibili spesso sono già in squadra. Il mercato si riduce così a giocatori di medio livello o a ritorni di vecchi glorie (al momento si sta cercando di riportare a casa il 32enne Javi Martínez dal Bayern Monaco). Il recente addio di Aritz Aduriz ha fatto venir meno il principale realizzatore dell’ultimo decennio, e oggi per le reti occorre affidarsi a un altro veterano come Raúl García. In attesa che emerga qualche giovane – tra i più promettenti, Peru Nolaskoian, Unai Vencedor, Oihan Sancet e Asier Villalibre – l’Athletic deve fare i conti soprattutto con le promesse che non sono state mantenute. Tra tutti, il più atteso era senza dubbio Williams. Oggi, invece, è il più criticato: esploso quando aveva solo vent’anni, nel 2014, pareva destinato a un futuro di altissimo livello, e il club fece di tutto per trasformarlo in quello che nel basket è chiamato franchise player: il giocatore simbolo della squadra. Oggi, a 26 anni, la condizione di Williams rappresenta quello dell’intero Athletic Bilbao: un immenso potenziale irrealizzato, e per certi versi in drammatico declino.

Chi non se la sente di essere così critico ricorda che il campionato è appena iniziato, e che il periodo è particolare sotto tutti i punti di vista a causa della pandemia. La rosa, in fondo, è praticamente la stessa che ha raggiunto la finale di Coppa del Re pochi mesi fa e non può essere scaduta all’improvviso. Ma è vero che l’Athletic dimostra di non avere una minima idea di gioco e, negli ultimi decenni, la squadra non è mai sembrata così fuori fase. Le colpe principali vengono addossate, forse non a torto, a Garitano, ma le polemiche attorno a questo Athletic sono solo un pretesto per porre finalmente l’attenzione sul ‘grande dibattito’: è arrivato il momento di cambiare? C’è una certa discrepanza su come l’Athletic viene percepito dall’interno e dall’esterno. Mentre nei Paesi Baschi si cerca di discutere delle crepe di un progetto societario unico, che però sta trasformandosi in una prigione («Potremmo essere un Liverpool, un Siviglia, un Borussia Dortmund» ha scritto polemicamente Noriega), la stampa straniera continua a esaltare il modello del club di Bilbao, al punto che lo scorso maggio Rory Smith scriveva sul New York Times che quello dell’Athletic dovrebbe essere l’esempio da seguire per tutti.

Yuri Berchiche è arrivato all’Athletic nel 2018, prima giocava nel PSG. È uno dei tre calciatori che, negli ultimi dieci anni, sono si sono trasferiti a Bilbao da club esteri: gli altri sono Kenan Kordo, dal Copenaghen, e Álex Berenguer, dal Torino (Juan Manuel Serrano Arce/Getty Images)

La questione identitaria ha sicuramente un peso, nell’ambito strettamente basco, specialmente in un’epoca in cui gli indipendentisti stanno vedendo crescere i propri consensi: sebbene il Partito Nazionalista Basco, da tempo al comando della regione, abbia visto calare i propri consensi negli ultimi quindici anni, il peso complessivo dei partiti indipendentisti è passato dal 42% del 2015 al 66% dello scorso luglio. Ma l’Athletic odierno, inteso come club di calcio, è logicamente più tiepido sul discorso politico e deve gran parte della sua forza mediatica – fuori scala rispetto ai successi in campo – al mito del proprio modello di reclutamento autarchico, che non ha eguali al mondo, per lo meno a certi livelli. La grande paura non consiste tanto nel rischiare di inimicarsi i nazionalisti baschi, quanto piuttosto di diventare un club come tutti gli altri, perdendo l’appeal nei confronti dei fan e dei media stranieri.

Anche perché, volendo considerare il discorso unicamente sotto il profilo politico, c’è da riconoscere che la Real Sociedad riesce benissimo ad avere sostenitori indipendentisti (Arnaldo Otegi, leader della sinistra abertzale, è un noto tifoso dell’Erreala) pur agendo liberamente sul mercato. E ottenendo anche buonissimi risultati sportivi, senza per questo aver rinunciato a un vivaio di alto profilo o a un solido rapporto coi tifosi, e senza aver compromesso i propri bilanci. Gli Zurigorriak oggi sono più che altro prigionieri di loro stessi. La paura dei tifosi è legittima e comprensibile, ma l’abbandono della regola etnica non comporta automaticamente la trasformazione in un club senza identità. La libertà di vincoli sulla rosa può essere perseguita in maniera oculata, limitandosi a rinforzi esterni necessari per solidificare una rosa di talenti locali, che continuerebbe a restare la base del club. Il discorso, per adesso, resta limitato ai media locali: la dirigenza sembra ancora dell’idea che sia meglio retrocedere che rinunciare alla propria politica di trasferimenti. Forse basteranno un paio di innesti nella rosa o un cambio in panchina, per correggere questa stagione, e il ‘grande dibattito’ potrà tornare in soffitta. Almeno fino alla prossima crisi.