Come sarà la nuova Champions League?

Guida introduttiva all'edizione 2020/21, con Massimo Marianella.

Paris Saint-Germain-Manchester United sarà il primo big match della Champions League 2020/2021. Sta per iniziare un’edizione diversa, condizionata dal Covid e da tutto ciò che comporta in termini di restrizioni e assenza del pubblico, ma che conserva intatti il fascino, le atmosfere e le suggestioni della massima competizione europea per club. Narratore della sfida di Cavani alla sua ex squadra sarà Massimo Marianella, voce storica del calcio europeo – 13 le finali di Champions raccontate in carriera – e di Sky, che anche quest’anno porterà la Coppa nelle case degli italiani: 125 incontri complessivi (con una selezione di match in 4K HDR con Sky Q satellite) e Diretta Gol per vivere gli incontri in contemporanea, fino alla finale del 29 maggio 2021 in programma allo stadio Atatürk di Istanbul. E nel pre e post partita toccherà ad Anna Billò condurre Champions League Show, lo studio di approfondimento dei match in onda anche su Sky Sport 24, con ospiti d’eccezione: Alessandro Costacurta, Alessandro Del Piero, Esteban Cambiasso, Fabio Capello e Paolo Condò.

Raccontare la Champions League, per Marianella, significa raccontare «tutto ciò che di bello c’è nel calcio per club, in un palcoscenico di assoluto prestigio che può cambiare la carriera di un giocatore e la storia di una squadra». E, quindi, raccontare emozioni che restano nella memoria individuale e collettiva anche a distanza di anni. Come il gol di Batistuta che zittisce Wembley, la finale di Madrid dominata da Diego Milito – «Ancora oggi ci sono tifosi dell’Inter che mi salutano e mi ringraziano per essere stato la “loro” voce di quella sera», dice Marianela – che fa il paio con quella di Atene marchiata a fuoco da Inzaghi. E poi, ancora, l’inizio dell’epopea di Cristiano Ronaldo a Mosca un anno prima della consacrazione di Messi all’Olimpico di Roma: un ideale ponte tra passato presente e futuro, alla vigilia di un’edizione che promette di essere già molto diversa da quella conclusasi nella “bolla” di Lisbona appena 58 giorni fa.

A partire dai rapporti di forza. Il Bayern Monaco sembra essere l’ovvia favorita per il “back to back”, sull’onda lunga della stagione che l’ha consacrata come la squadra più forte del mondo e di una campagna acquisti all’insegna della futuribilità, del progressivo ricambio generazionale e mirata a tappare le poche falle della rosa a disposizione di Hansi Flick. Le pretendenti al trono dei bavaresi, però, non mancano: «Nonostante la grande forza del Bayern, non riesco a parlare di una “grande favorita” in senso stretto, e non solo perché ripetersi è sempre difficile. Le squadre che possono ambire ad alzare il trofeo sono tante, e per motivi diversi. Immediatamente dietro il Bayern vedo il Liverpool e il Psg, due collettivi meravigliosi e che hanno cambiato poco: questo è un dettaglio significativo già in tempi normali, figuriamoci in una stagione che sembra quasi il prolungamento di quella precedente e che sarà condizionata dal calendario compresso».

Poi le tre grandi di Spagna, più o meno silenti nell’estate di calciomercato più strana di sempre ma «che non possono mai essere escluse dalla griglia delle potenziali vincitrici»; e ancora il Manchester United United, «che può essere scomodo per chiunque nel momento in cui dovesse risolvere gli equivoci legati a Pogba», ma anche Inter e Juventus che rispetto ad Atalanta e Lazio possono contare su un inizio soft all’interno di due gironi ampiamente alla portata.

Un vantaggio non da poco, soprattutto per la squadra di Pirlo, ancora alla ricerca della sua identità e alle prese con le difficoltà un processo di rinnovamento culturale e filosofico prima ancora che tattico e di campo: secondo Marianella, «parliamo comunque di una squadra che da anni si è attrezzata e si sta attrezzando per competere ad alti livelli. E che anche stavolta ha tutto non solo per arrivare in fondo, ma anche per vincere». A favore dei nerazzurri, invece, ci sono una rosa molto più profondità per qualità e quantità rispetto a quella dello scorso anno; e poi Antonio Conte, che per il telecronista di Sky è «uno dei migliori allenatori del mondo quando si tratta di tirare fuori il meglio dal materiale umano a disposizione». E poco importa non essere riusciti a dare forma e concretezza alla suggestione Messi.

Nelle ultime due stagioni, l’Inter ha giocato il girone di Champions League ma non è mai riuscita ad accedere agli ottavi: nel 2018 è stata eliminata da Barcellona e Tottenham, un anno dopo dal Barcellona e dal Borussia Dortmund (Alex Caparros/Getty Images)

Discorso a parte merita il City di Guardiola, al quinto anno del progetto più lungo che il tecnico catalano abbia mai affrontato lontano da Barcellona, e alle prese con il defining moment della terza fase della sua carriera. Una fase che sembra non poter avere una conclusione diversa dalla conquista della terza Champions da allenatore, pena un ennesimo (e definitivo?) ridimensionamento del “guardiolismo”. Marianella condivide le percezioni legate all’idea di “ultima spiaggia”: «La sensazione è che la valutazione della sua esperienza inglese dipenderà in larga parte da ciò che farà in Europa. Quindi è ipotizzabile che gran parte delle sue energie nervose saranno incanalate lì».

Allo stesso modo, però, l’apporto di Guardiola al calcio del XXI secolo resta enorme, considerando che questo sport è già cambiato – e continua a cambiare – con e grazie a lui: «Dopo la sentenza Bosman la Champions League è diventata una sorta di campionato mondiale degli allenatori che hanno implementato tante filosofie diverse sulla base di caratteristiche comuni come velocità, possesso palla, pressing alto, capacità di riaggressione, attacco e dominio dello spazio senza palla. In questo senso Guardiola è stato un innovatore, ma anche un tecnico in grado di cambiare se stesso, soprattutto quando si è trattato di rendere il suo Bayern una squadra più immediata, diretta e verticale di quella che ci aveva abituato a vedere negli anni di Barcellona».

Alla quinta stagione in Inghilterra, Guardiola cercherà di andare oltre i quarti di finale di Champions; il City ci è già riuscito un anno prima del suo arrivo, nel 2016, ma fu eliminato dal Real Madrid (Laurence Griffiths/Getty Images)

Un “gioco europeo” o, meglio, «un gioco d’élite» che costituisce il vero segno distintivo della competizione stessa. Perché la nuova idea di difesa a tre con il terzino utilizzato come terzo centrale di costruzione, la difesa a quattro in cui i due terzini diventano dei veri e propri registi aggiunti in fase di costruzione dell’azione e di consolidamento del possesso, la capacità di recuperare il pallone il più in alto possibile, forzando l’errore dei due centrali che costruiscono l’azione dal basso – anche se questo «è un fondamentale per cui non nutro un particolare trasporto, soprattutto quando lo vedo eseguito da chi non se lo potrebbe permettere» – sono tratti tipici non solo delle big ma anche delle cosiddette “mine vaganti”: il Borussia Dortmund di Favre, il Lipsia di Nagelsman – che secondo Marianella «avrà un anno in più di esperienza in questa competizione e va tenuto d’occhio» –, il Chelsea giovane e sfrontato di Lampard, l’Atalanta costruita per aderire ai principi e alle idee di calcio di Gasperini. Una squadra, quella bergamasca, diventata un modello di competitività e programmazione sostenibile e che nessuno, anche in Europa, vorrebbe affrontare in questo momento grazie a «un grande lavoro della società per quanto riguarda lo scouting e costruzione della rosa». Dopo essere stata la rivelazione dello scorso torneo la sfida è quella di consolidarsi ad alti livelli, cercando di colmare con il collettivo il gap che la separa dalle grandi per ciò che riguarda i singoli e le individualità. Senza la necessità di doversi riferire per forza ai soliti noti: Mbappé, Sancho, Haaland, Havertz, Rashford, Vinícius, Ansu Fati, sono già oggi il “qui e ora” del calcio europeo, una generazione di superstar che dopo aver sognato la grandezza di Messi, Cristiano Ronaldo, Neymar e Lewandovski, adesso intendono appropriarsene. Senza aspettare che i loro idoli abdichino naturalmente.

Questo divario nelle individualità e nello star power, tuttavia, potrebbe essere meno condizionante che in passato. La notizia della positività di CR7, che rischia così di saltare la sfida al Barcellona in programma all’Allianz Stadium il 28 ottobre, ha spinto a interrogarsi su come e quanto il Covid possa  falsare l’esito di quella che Mourinho definì “la competizione dei dettagli”, soprattutto se l’emergenza dovesse protrarsi  anche nella fase a eliminazione diretta. Una domanda che ha senso porsi fino a un certo punto, soprattutto nel momento il dover rinunciare a un giocatore positivo continuerà ad avere lo stesso impatto di un’assenza per infortunio di media entità: «Credo che dovremo abituarci ad avere una lista infortunati e una “lista Covid” come accade nella Nfl», dice Marianella, «dovremo convivere con quest’emergenza ancora per qualche tempo, quindi tanto vale andare avanti a valutare i giocatori positivi come dei normali infortunati, salvo ovviamente casi limite che portino ad assenze multiple e prolungate. Alla fine tutte le partecipanti hanno un roster degno di questa competizione, anche se l’assenza di un Ronaldo, di un Messi o di un Lewandovski è e sarà condizionante oggi come ieri e come domani. Covid o non Covid».

Nella sua prima stagione in Champions League, divisa a metà tra Salisburgo e Borussia Dortmund, Erling Haaland ha realizzato dieci gol in nove partite (Patrik Stollarz/AFP via Getty Images)

Covid che, tra l’altro, costringerà a dover fare a meno del pubblico e del fattore ambientale, che pure sono parte integrante di quell’atmosfera unica, riconoscibile e iconica che coinvolge tutti protagonisti della Champions, dentro e fuori dal campo: «Senza gli spettatori si perde e si perderà tanto. Me ne sono accorto commentando la Supercoppa Europea a Budapest, che pure è stata un grande successo a livello televisivo con quasi il 31% di share: sugli spalti c’erano quasi 17.000 persone che creavano un ambiente agonisticamente già più simile a quello cui siamo abituati. Tutt’altra cosa rispetto a quanto ho visto e percepito a Lisbona, nella fase finale dell’ultima Champions».

Eppure l’attesa è quella di sempre, nonostante tutto. Perché la Champions League è un mondo a parte per chi la gioca, per chi la vive e per chi la racconta, nell’ultimo vero punto di contatto tra la visione infantile, gioiosa e genuina del gioco e la dimensione del professionismo esasperato, del “prize money”, dello spettacolo che deve andare avanti a ogni costo: «Ricordo un’intervista in cui Marchisio diceva che prima delle partite all’oratorio, con i suoi amici si divertiva a mettere la cassetta con incisa la musica della Champions per ricreare l’atmosfera delle notti di coppa. Ecco per me è lo stesso ogni volta che metto le cuffie per la telecronaca e vedo quelle stelline sul pallone e sulle patch delle maglie: il mio obiettivo è quello di trasmettere ai telespettatori le stesse emozioni che provo io in quei momenti, quando divento parte della storia del calcio. E sono grato a Sky per aver realizzato e continuare a realizzare i sogni di quando ero solo bambino che sognava davanti alle immagini trasmesse dalla TV in bianco e nero». Una storia fantastica. Che ricomincia stasera.