Dopo Maradona, il calcio non è stato più lo stesso

Mentre il gioco iniziava a spostarsi verso gli schemi collettivi, ha rimesso il talento e l'individualità al centro di tutto: una contro-rivoluzione della solitudine che ha portato alla nascita dei fuoriclasse moderni.

Quando vogliamo ricordare un calciatore che amiamo o che riteniamo molto forte, quando ci chiedono di farlo, i meccanismi rievocativi della nostra memoria forniscono subito un elemento iniziale, una sorta di immagine di copertina, un’istantanea che presenta e rappresenta l’atleta in questione – la clip di un gol se si tratta di un attaccante, di un assist o di un dribbling se si tratta di un fuoriclasse offensivo, di una parata prodigiosa se si tratta di un portiere, e così via. È un processo che avviene spontaneamente, che avviene di continuo, e che viene utilizzato anche dai media quando si tratta di compiere il procedimento inverso, quando sono loro a voler raccontare la storia, i trionfi, la grandezza di un calciatore del passato o del presente.

È così che tutti noi finiamo per associare un’immagine iconica a un giocatore iconico: Ronaldo Luís Nazário de Lima che ubriaca Luca Marchegiani in uscita un attimo prima di segnare il terzo gol dell’Inter contro la Lazio, nella finale di Coppa Uefa del 1998; Alessandro Nesta che interviene perfettamente in scivolata su Lionel Messi durante una partita tra di Champions League tra Milan e Barcellona; Cristiano Ronaldo che si libra in volo e incenerisce Gianluigi Buffon con una meravigliosa rovesciata, all’apice di una sfida tra il Real Madrid e la Juventus; Diego Maradona che salta in dribbling tutti i giocatori dell’Inghilterra, supera anche il portiere Peter Shilton e infine deposita il pallone nella porta vuota, pochi minuti dopo aver fatto la stessa cosa, solo che ha beffato Shilton colpendo il pallone con la mano.

È inevitabile che questi flash vadano a intercettare i momenti migliori, le giocate migliori, quindi raccontino le doti migliori e più evidenti degli atleti in questione: il dribbling a velocità supersonica di Ronaldo, il tempismo imperiale di Nesta, la coordinazione sovrumana di CR7. Nel caso di Maradona, però, il significato di quella sequenza conosciuta da tutti, in ogni parte della Terra, è molto più profondo. Il gol realizzato contro l’Inghilterra ha un’enorme importanza storica, culturale e finanche politica, ma soprattutto descrive in maniera perfetta la grande rivoluzione portata da Maradona nel calcio nel suo tempo, ciò che lo ha reso un giocatore unico, per molti inarrivabile: la contro-rivoluzione della solitudine.

Diego Maradona esordisce nella prima squadra dell’Argentinos Juniors nel 1976. Due anni prima, il grande percorso dell’Olanda di Rinus Michels e Johan Cruijff ai Mondiali aveva sublimato il successo del Totaalvoetbal, un sistema di gioco in grado di cambiare l’idea stessa di tattica calcistica: per la prima volta nella storia, una Nazionale e alcune squadre di club (l’Ajax e il Feyenoord, vincitrici di quattro Coppe dei Campioni consecutive all’inizio del decennio) avevano dimostrato come una strategia organica basata su una netta superiorità fisica e aerobica, sull’intercambiabilità delle posizioni in campo, sull’idea di imporre meccanismi studiati e attuati in maniera ossessiva, potesse determinare un vantaggio competitivo su qualsiasi avversario, per una partita, per l’intera durata di un torneo, probabilmente per sempre. A partire dagli anni Settanta, quindi, il talento individuale ha un peso diverso nella progettazione di una squadra di calcio: non viene messo in secondo piano, ma di certo non è più l’unico riferimento degli allenatori, il pilastro intorno a cui mettere a punto un modello tattico, in fase difensiva come in fase offensiva. La comparsa e l’affermazione di Diego Maradona, però, rimettono in discussione tutto questo: il fuoriclasse argentino è il grande artefice della contro-rivoluzione, riporta la qualità del singolo al centro di tutto, con un’incidenza enorme, ma soprattutto in un modo nuovo, che non si era mai visto prima di lui.

Maradona alleviava la solitudine altrui ricercando esasperatamente la propriaCosa c’entra la solitudine? La risposta a questa domanda va ricercata nel gioco di Maradona, che accettava e gestiva la solitudine, anzi accentuava la ricerca della giocata solitaria, del duello diretto con gli avversari. Gli analisti di StatsBomb hanno rivisto Argentina-Inghilterra del 1986 e hanno raccolto i dati di quella partita come se fosse stata giocata oggi, con lo stesso approccio, la stessa tecnologia, la stessa accuratezza. Ebbene, secondo le rilevazioni Maradona ha tentato 14 volte il dribbling in poco più di 90 minuti. Di questi, gliene sono riusciti 12. Nella sua stagione con più dribbling tentati (2019/20), Leo Messi ha toccato la quota media di 6,3 dribbling tentati per match, praticamente meno della metà. Questa tendenza così marcata ad accentrare su di sé il gioco non era espressione di individualismo, anzi va considerata in maniera esattamente opposta: Maradona alleviava la solitudine altrui ricercando esasperatamente la propria, i suoi continui tentativi di andare a prendere il pallone e partire in percussione erano un modo per togliere responsabilità e incombenze ai compagni, per aprire spazi, per disordinare il gioco altrui, o anche semplicemente per sfruttare le sue incredibili qualità; il calcio solipsistico di Maradona era in realtà altruismo portato all’estremo, era consapevolezza di possedere un controllo soprannaturale del pallone e del proprio corpo, era la capacità di mettere tutto questo al servizio della squadra, della ricerca del risultato.

Maradona ha esordito con la Nazionale argentina nel 1977, l’ultima partita risse invece al 1994; ha vinto il Campionato del Mondo nel 1986 e ha accumulato 91 presenze e 34 reti (David Cannon/Allsport/Getty Images/Hulton Archive)

Nei video-skills di Maradona, nelle immagini che vediamo e rivediamo da anni grazie alle videocassette, ai dvd, alle piattaforme video su internet, ci sono moltissime azioni in cui c’è Maradona che duella contro un difensore; ma ci sono altrettante sequenze che lo vedono affrontare e poi dribblare uno, due, tre, quattro, anche cinque o sei giocatori avversari – a parte i numeri, ci sono quindi delle testimonianze filmate che spiegano come il gol segnato in quel modo all’Inghilterra non sia un caso, piuttosto era un’azione che si ripeteva frequentemente durante le sue partite. Rivedere quei video dà l’impressione di essere costantemente immersi nelle scene finali dei film di supereroi, quelle in cui il protagonista affronta l’ultimo combattimento contro un esercito di nemici, e allora deve sfruttare tutti i suoi poteri per sconfiggerli, per salvare il mondo. E ovviamente ce la fa.

Ecco, Maradona giocava esattamente così: il suo mondo da salvare era il possesso del pallone, e infatti una volta ha detto ad Alessandro Costacurta che non sentiva il dolore dei suoi calci, dei suoi interventi ruvidi, «perché la mia voglia di tenere la palla, di giocarci, era molto più forte»; i suoi poteri erano una tecnica sublime, ma anche una forza fisica enorme, che difficilmente ti aspetteresti da un uomo con la sua fisicità, una forza che si esprimeva nell’esplosività dello scatto breve, nella rapidità del gioco di gambe, nella resistenza ai contrasti, nella prontezza dei riflessi, nella capacità di giocare a tutto campo per tantissimi minuti in ogni partita, senza perdere un milligrammo di lucidità tecnica, di controllo mentale.

Due minuti scarsi di azioni in solitaria, di dribbling incredibili, di controlli antigravità, fatti da Diego Maradona

Maradona ha anticipato la modernità di alcuni centrocampisti creativi dell’era contemporaneaL’universalità è un aspetto fondamentale: Diego Maradona giocava ovunque, era ovunque, quando i suoi compagni e i suoi avversari avevano ancora delle posizioni e delle attribuzioni abbastanza standardizzate, degli spazi da occupare piuttosto limitati; la sua capacità di proteggere il pallone e far salire la squadra, come si dice oggi, si manifestava in qualsiasi punto del campo: a ridosso della linea laterale destra, sulla trequarti, nel mezzo spazio di sinistra, nell’area di rigore difensiva, ovviamente nei pressi della porta avversaria. In questo senso Maradona ha anticipato la modernità di alcuni centrocampisti creativi dell’era contemporanea, solo che questa definizione esiste davvero solo da pochi anni, mentre Maradona ha giocato la sua ultima partita vera nel 1994. Tra l’altro queste sue doti sono esplose in un’era calcistica particolare, in un tempo intermedio, un tempo di evoluzione e transizione in cui la marcatura a uomo cominciava a contaminarsi con il concetto di difesa a zona, e quindi l’intensità e il ritmo delle partite stavano iniziando ad alzarsi – e tutto ciò stava spingendo, anzi stava costringendo i giocatori creativi a diventare più dinamici rispetto al passato.  Il gioco era in piena fase di trasformazione, gli allenatori stavano imparando a codificare la complessità del modello olandese, stavano dando un perimetro di normalità – nel senso di replicabilità, di applicabilità diffusa – a ciò che Cruijff e i suoi compagni avevano fatto vedere per la prima volta. Così stavano nascendo (più) calciatori in grado di attaccare e di difendere con uguale qualità, atleti più poliedrici, più elastici, in grado di seguire un uomo per tutta una partita ma anche di coprire gli spazi seguendo i movimenti dei compagni.

Solo che poi è arrivato Maradona, un giocatore tecnicamente e atleticamente superiore, un robot a sangue caldo che in pochi anni rompe questo nuovo schema in via di definizione e affermazione. Infatti, nella finale dei Mondiali del 1986, il ct della Germania, Franz Beckenbauer, decise di sacrificare Lothar Mattheus, il suo miglior centrocampista, chiedendogli di marcare il capitano dell’Argentina per tutta la partita. Raccontata così, sembra che l’impatto del talento di Maradona abbia riportato indietro l’orologio dell’evoluzione tattica, abbia determinato un ritorno al passato, a un’era in cui il calcio veniva concepito e insegnato e giocato come un infinito duello individuale a tutto campo. In realtà, Maradona ha permesso al calcio di fare un lunghissimo salto nel futuro.

Nei suoi sette anni al Napoli, dal 1984 e il 1991, Maradona ha giocato 259 partite in competizioni ufficiali, e ha segnato 115 gol; ha vinto due scudetti, una Coppa Uefa, una Coppa Italia e una Supercoppa Italiana (Allsport UK /Allsport)

Gli allenatori di Maradona e quelli che affrontavano Maradona hanno dovuto fare i conti con la forza straripante del suo talentoIn un articolo pubblicato su Sports Illustrated, Jonathan Wilson ha scritto che «Maradona dava l’impressione di vincere moltissime partite da solo. Mai, prima o dopo di lui, c’è stato un giocatore che faceva provare questa stessa sensazione in maniera così forte, così frequente. La realtà è che Maradona ha potuto giocare in quel modo perché i suoi allenatori, a partire da Bilardo, gli hanno dato la libertà di cui aveva bisogno». È per questo che Maradona ha cambiato il calcio per sempre: quando sembrava che la tattica collettiva stesse diventando l’unica religione da professare, l’unica stella polare per gli allenatori di tutto il mondo, gli allenatori di Maradona e quelli che affrontavano Maradona hanno dovuto fare i conti con la forza straripante del suo talento, hanno dovuto studiare un modo per valorizzare le sue doti, oppure per limitarle, così da limitare i danni. Non a caso, viene da dire, il suo ciclo di successi al Napoli è coinciso con l’affermazione del Milan di Sacchi, la prima grande squadra sistemica del panorama italiano: il duello tra due società già opposte per mille ragioni – geografiche, sociopolitiche, culturali – divenne così anche uno scontro tra visioni calcistiche diverse. Due visioni che però erano destinate a fondersi, di lì a poco.

Dopo Maradona, la gestione del talento individuale non è stata più lo stessa: i suoi trionfi e la sua leadership hanno reso possibile l’esistenza – come “calciatori-brand”, ma anche come profili tattici possibili – di Roberto Baggio, di Ronaldo, di Ronaldinho e di Totti, di Messi e Cristiano Ronaldo, di tutti quei fuoriclasse che hanno vinto molte partite da soli, sfruttando qualità tecniche e/o atletiche molto superiori alla media. Questi campioni sono stati inseriti in sistemi tattici sempre più avanzati e sofisticati, ma si è trattato di un adattamento reciproco, per cui gli allenatori hanno dovuto mettere a punto dei meccanismi che esaltassero le loro doti, che non le limitassero per privilegiare il culto del collettivo. In virtù di tutto questo, si può dire che Maradona abbia portato alla nascita della tattica individuale moderna, che sia stato fondamentale perché potesse determinarsi il calcio che conosciamo e vediamo e ammiriamo oggi, un mix inebriante di strategia avanzata e qualità individuali che vengono moltiplicate, non sommate, dal lavoro degli allenatori. Nel nome del talento, nel nome delle idee.