Quando due anni fa Lautaro Martínez è passato all’Inter, tra gli aneddoti sul suo passato argentino che circolavano prima del suo arrivo in Italia, ce n’era uno particolarmente interessante da rileggere ancora oggi: la testimonianza della psicologa del Racing, secondo cui il risultato dei suoi test di concentrazione, ai tempi dell’Academia, nickname del vivaio della squadra di Avellaneda, era il migliore di tutti. La capacità di concentrarsi è ancora un pregio tangibile di Lautaro, anzi, a volte sembra che lo porti addirittura a sovraccaricarsi, a prendere decisioni sbagliate, a cercare soluzioni individuali, a spremere fino in fondo ogni situazione di gioco – fino a eccedere, per esempio con falli evitabili e ingenui. Il suo focus durante la partita è sempre alto, ma, nonostante questo, quasi a metà della sua terza stagione all’Inter, in mezzo a picchi straordinari, non ha ancora raggiunto una continuità di rendimento stabile, in rapporto al suo valore.
Nella scorsa stagione si è parlato molto di un suo possibile approdo al Barcellona, a ricomporre l’asse caldissimo che si accende in ogni partita della Nazionale argentina con Lionel Messi. Si è anche parlato molto di quanto l’interessamento palese dei blaugrana abbia potuto incidere sull’attaccante dell’Inter, che dopo una prima metà di stagione giocata su livelli molto alti ha iniziato ad alternare partite buone a altre decisamente negative. Ad oggi, – per quanto il calcio d’élite abbia già inquadrato bene la sua dimensione di centravanti destinato a una carriera a livelli top, è probabile che il massimo rendimento di Lautaro Martínez nell’arco di una stagione non si sia ancora visto.
La sua interpretazione del ruolo di centravanti è istintiva e per certi versi anche emotiva, dato che l’esito della sua giocata sembra sempre in qualche modo legata all’esito della giocata precedente. Il gioco di Lautaro è un’arma affilatissima con cui lo stesso Lautaro, spesso, finisce per tagliarsi: più accumula duelli vinti e più cresce, più è tecnicamente padrone della partita e più crea altre situazioni di vantaggio; allo stesso modo, quando sbaglia più volte di seguito, le sue giocate si fanno più nervose, e così non riesce a uscire dalla palude di una giornata storta. È un aspetto che probabilmente potrà essere corretto solo con il tempo, ma che dipende anche dal suo set di caratteristiche e dal sistema in cui deve agire.
Conte ha pensato la sua Inter fin dal primo momento come una squadra basata sul lavoro delle sue punte. Ha provato a farsi comprare Džeko, uno dei migliori numeri nove in assoluto in rifinitura; ha scommesso tutto su Lukaku con la precisa idea in testa di trasformarlo in un pivot che manovra spalle alla porta, dopo una carriera giocata come un tir in contromano, a fare la differenza con l’esplosività in transizione. Inoltre, tutti i tentativi e le opportunità di costruire un meccanismo con fonti di rifinitura alternative sono durati poco, per cause di forza maggiore o incompatibilità con la coppia offensiva: la prima parte della scorsa stagione di Sensi, le poche partite con Sánchez al suo apice (Inter-Benevento di inizio campionato spiega alla perfezione quanto il cileno sia decisivo per variare le soluzioni offensive dei nerazzurri) e ovviamente l’inserimento mai realmente avvenuto di Eriksen nel cuore del sistema, tutti questi fattori non hanno scalfito davvero l’Inter che si è vista più a lungo nella la scorsa stagione: la squadra che cerca di arrivare più velocemente possibile al suo totem con meccanismi codificati e che ha bisogno di viaggiare a ritmi alti per non diventare prevedibile. Una squadra fulminante in uscita, quando è al suo meglio, troppo diretta quando è appannata.
L’Inter, dunque, è una squadra che in fondo ha gli stessi pregi e gli stesi difetti di Lautaro: l’attaccante argentino mostra il meglio del proprio repertorio quando può giocare d’istinto, e paradossalmente esegue giocate più precise ed incisive quando può permettersi di non fermarsi a pensare. La sua rapidità nell’accendersi, la sua forza nel vincere duelli individuali, di bruciare il marcatore alle spalle con un controllo orientato o crearsi spazio a colpi di sterzate, tutto ciò lo rende una punta moderna, utile e pericolosa fuori area, e su questo Conte fa molto affidamento; Lautaro è chiamato a giocare una mole enorme di palloni lontano dalla porta, sia di spalle che di fronte all’uomo, la maggior parte delle volte ricevendoli dopo che Lukaku li ha attratti a sé come una calamita, e poi li ha ripuliti. L’intesa con il belga, infatti, non è questione di compatibilità tecnica, ma consiste sostanzialmente in questo: in un compromesso in cui entrambi cercano di far valere il loro strapotere, che sia in fisicità, reattività o sensibilità tecnica, nei duelli. Non è un caso che, quando gli spazi si chiudono, fatichino a innescarsi: nessuno dei due è un buon rifinitore.
Utilizzando Lautaro in questo modo – forse l’unico possibile, con questo sistema – Conte ha deciso di scommettere tutto sulla sua abilità di vincere duelli: l’argentino ha il tocco e l’istinto per mandare a vuoto avversari, per anticipare difensori con stop a seguire, con controlli che diventano dribbling, per scappare in conduzione. Il suo calcio è un continuo uno-contro-uno a tutto campo, in cui le sue doti possono fare e fanno la differenza: per capire l’importanza del suo lavoro, è utile ripensare alla prima ora gioco del derby contro il Milan, in cui ha anticipato continuamente Kjaer, costringendolo a concedere diversi falli, oppure l’ottima prestazione contro il Real Madrid e contro Sergio Ramos, in Champions League. Però Lautaro Martínez non è Džeko, non sa congelare un pallone e lavorare un’azione col palleggio, imbucare filtranti o tessere gioco: le sue partite così lontane dalla porta sono guerre con una sola arma a disposizione. Un’arma che sa usare divinamente ma, per l’appunto, una sola arma.
Probabilmente il carattere tanto dispendioso di questo compito gli impedisce di svolgerlo sempre con uguale brillantezza, e in quei momenti il suo approccio così istintivo al calcio, come se fosse un continuo assalto, lo espone a prestazioni peggiori, così come gli regala segmenti di dominio quando sta bene. Se l’Inter riuscisse ad aggiungere stabilmente ciò che più le manca per completarsi, ovvero una quota di fantasia, estro e rifinitura nel cuore dello sviluppo del gioco, le sue punte sarebbero sgravate di una parte del colossale lavoro a cui sono chiamate, potrebbero essere coinvolte più tardi nello sviluppo dell’azione ed essere più lucide al momento della giocata decisiva. Nella Nazionale argentina, che ha molte lacune ma di certo non manca di rifinitori e passatori di altissimo livello, Lautaro è semplicemente il terminale offensivo, e così riesce a sintetizzare con efficacia le sue ottime doti da realizzatore e il repertorio tecnico che lo rende una punta destinata all’élite.
Un po’ di grandi azioni di Lautaro, non proprio a due passi dalla porta
In fondo, Lautaro Martínez è un attaccante complessivamente atipico rispetto ai vecchi standard del ruolo: fin dai tempi del Racing è stato abituato a svuotare l’area e poi riempirla al momento giusto, ma allo stesso tempo ha fondamentali e modo di pensare da centravanti classico; per caratteristiche è poco associativo e le sue doti tecniche le utilizza per liberarsi degli avversari e per costruirsi le condizioni migliori per il tiro. Ha una spiccata reattività nel calciare di prima e trovare l’angolo, un tiro potente anche dalla media distanza, una certa capacità di coordinarsi e colpire di testa nonostante i 174 cm di statura, e di attaccare lo spazio. Sa giocare a tutto campo, ma ha l’anima, i mezzi e l’istinto per imporsi – nel contesto giusto – come un gran finalizzatore.
Conte, molto probabilmente, lo sa bene. Ma sa anche che una coppia d’attacco così particolare, così poco complementare sulla carta, per funzionare così bene ha bisogno di qualche piccolo compromesso. Forse, inserendo il tassello che completerà l’Inter, che sia Sensi, Eriksen o Sánchez, anche Lautaro Martínez si sposterà di quei millimetri che mancano, all’interno di un puzzle in cui già brilla, per raggiungere il massimo del suo potenziale, per costanza di rendimento, lucidità e numero di gol. Un potenziale che non sembra avere limiti.