E se nemmeno Conte fosse quello giusto?

L’allenatore che inizia a mostrare segni di cedimento logico facendo scelte che non sembrano trovare spiegazione è un grande classico dell’interismo recente e non recente

Non sono uno di quegli interisti che hanno accolto Antonio Conte come se Satana gli fosse entrato in casa. Certo, non mi è mai stato particolarmente simpatico, sia per come lui è, sia per il fatto che fosse così juventino. Ma venivamo, in quell’estate del 2019, dall’Inter di Spalletti e Icardi, da settimane di risultati senza senso e gioco che si ripeteva uguale come uno schema di allenamento: una decina di passaggi inutili a centrocampo, poi palla sulle fasce, a Perisic o a Politano, un tentativo di cross o di dribbling e palla in area.

Essendo diventato emozionante all’incirca come guardare un acquario, juventino o meno che fosse l’allenatore, si avvertiva un certo bisogno di cambiamento, che generava una predisposizione alla tolleranza. E va ammesso, Conte la differenza l’ha fatta. Innanzitutto imponendosi per l’acquisto di un giocatore come Lukaku che, nonostante l’ampio scetticismo anche tra commentatori piuttosto qualificati, è il più grande e sensato acquisto fatto dall’Inter dai tempi di Eto’o; un giocatore immenso, un trascinatore anche a livello psicologico e pure un simbolo culturale. E poi perché effettivamente la prima Inter di Conte aveva qualcosa: la capacità di ribaltare un’azione avversaria con un contropiede in tre passaggi, un entusiasmo, una cattiveria. Era l’Inter in cui giocava titolare uno dato per finito come Antonio Candreva, quella in cui facevano spesso presenza Borja Valero e Gagliardini, non proprio dei top player, come si dice. Quell’Inter si è spenta a poco a poco. L’ultima straordinaria partita che io ricordi è il derby vinto per 4-2. Stiamo parlando del 9 febbraio del 2020 e dell’ingresso a partita in corso del neoacquisto Christian Eriksen che, praticamente appena entrato, colpisce una traversa su punizione.

Cosa sarebbe successo se quella punizione fosse entrata? Si dice spesso che il calcio sia questione di centimetri, ma probabilmente non sarebbe cambiato molto né per Eriksen né per l’Inter. Perché il calcio è sì una questione di centimetri, ma anche di ideologie e di caratteri. Probabilmente Antonio Conte gli avrebbe comunque preferito Gagliardini in una finale di Europa League dove gli avversari del Siviglia avrebbero dato alla squadra italiana una lezione di possesso palla, con tutti a chiedersi se un giocatore con l’esperienza internazionale del danese non sarebbe potuta servire. L’Inter avrebbe perso quella finale, dopo essere arrivata seconda anche in campionato. Risultati che sarebbero stati rivendicati con orgoglio da Antonio Conte come fondamenta per costruire finalmente una stagione di successi. Una rivendicazione anche sensata se non fosse stata preceduta dalla minaccia di andarsene come forma di vendetta per qualche oscura sottotrama dirigenziale contro di lui.

E arriviamo così a questo inizio di campionato, un inizio disastroso come pochi tanto da rievocare la parabola di un altro juventino arrivato a bruciarsi sulla panchina nerazzurra come Marcello Lippi. Le fondamenta sono crollate quasi subito. Si è partiti da quei due secondi posti con gli innesti di giocatori di livello indiscutibile come Achraf Hakimi, Arturo Vidal e la flebile speranza di tutte le persone sane di mente che Christian Eriksen potesse finalmente rientrare nei piani dell’allenatore. E si è ripartiti con l’assoluta mancanza di un’idea di calcio oltre che di un progetto per difendersi. L’Inter a oggi è una squadra che non sa cosa fare e che, per contro, quando viene attaccata, mostra lacune insospettabili.

L’Inter non perdeva un derby di campionato dal 2016, prima della sconfitta della Serie A 2020/21. Dopo 11 partite di Serie A e Champions League, il bottino di Conte è di 4 vittorie, 5 pareggi e 2 sconfitte.

L’allenatore sembra guidarla non con la capacità dei grandi di adattare le sue idee ai giocatori che ha, ma di forzare la natura del talento con delle regole che per quel talento sono controproducenti. Oppure, quando questo non è possibile, di preferire al talento una sorta di fedeltà, mosso come da una battaglia personale contro qualcuno o qualcosa. L’insistenza nello schierare una difesa a tre che fa acqua da tutte le parti e che contro il Torino vedeva preferire Ranocchia e D’Ambrosio a Skriniar e De Vrij in un’attitudine al turnover suicida, oppure l’invenzione del trequartista che trequartista non è (Barella, Vidal, Sánchez) pur di non dare a Eriksen la fiducia che merita. Con l’evidente involuzione psicologica e di gioco di alcuni campioni, a cominciare dallo stesso Eriksen per arrivare a quello che un paio d’anni fa era considerato uno dei migliori centrali d’Europa come Skriniar, passando per le insicurezze di De Vrij e i segnali preoccupanti dati persino da Hakimi. La sensazione, al di là della forza dimostrata nella rimonta contro il Torino, è che l’allenatore abbia perso la bussola e che la sua cupio dissolvi possa danneggiare anche dal punto di vista economico alcuni valori della squadra (il ventilato scambio Eriksen-Paredes in vista a gennaio, tanto per dirne uno).

Per l’interista siamo alle solite. Con l’aggravante che quest’anno la squadra c’è, con tutti ruoli coperti e coperti bene. L’allenatore che inizia a mostrare segni di cedimento logico facendo scelte che non sembrano trovare spiegazione è un grande classico dell’interismo recente e non recente. Abbiamo ancora negli occhi Mazzarri e Spalletti e i loro finali shakespiriani a cui sembra inevitabilmente destinato anche Conte, ennesimo esempio del “non essere” l’allenatore giusto.