Stone Island, come si costruisce un marchio di culto

Intervista con Carlo Rivetti, l’uomo che ha fatto di Stone Island un brand unico nel panorama dello streetwear: questione di cultura, di qualità, di identità. E una storia che parte da lontano.

Ricordo tutto del mio primo Stone Island. Dove l’ho comprato, quanti anni avevo, il colore e il tessuto, riesco perfino a richiamare, quasi intatta, l’emozione della prima volta che lo indossai, probabilmente quella stessa sera. Non ho più quel maglione – sono passati quasi quindici anni – ma ho conservato la patch nera con la rosa dei venti ricamata in giallo e verde, il segno distintivo di ogni capospalla Stone Island applicato sul braccio sinistro. È un aneddoto personale e, proprio come aneddoto personale, potrebbe sembrare superfluo, ma racconta in realtà molto su cos’è e come funziona Stone Island, sull’affezione che si sviluppa in chi mette un capo del brand milanese nel proprio armadio, sulla bellezza delle cose e sul loro essere tutt’altro che oggetti inanimati.

Il brand che dal 1982 ha ridefinito lo sportswear, e che è da quasi sempre guidato da Carlo Rivetti, produce vestiti che, in modo piuttosto magico, hanno a che fare con i sentimenti, e la parola “icona” riferita alla rosa-simbolo ha una valenza non soltanto metaforica, ma quasi davvero religiosa.

Carlo Rivetti, nello showroom di Milano affollato di buyer per la campagna vendita, è da poco tornato da Hong Kong, dove ha appena inaugurato un negozio. A fine agosto 2018 ne aveva aperto uno a Tokyo, e tra poco il gruppo lascerà la sede storica di Corso Venezia a Milano per trasferirsi in una nuova, più grande, a ridosso di piazza San Babila. «La soddisfazione», dice maneggiando la sigaretta elettronica metallizzata nella destra, «è andare in questi mercati nuovi senza cambiare lingua: vuol dire che in giro per il mondo c’è sempre qualcuno che ha voglia di ascoltare le storie che noi abbiamo da raccontare». Non c’è bisogno che qualcuno gli chieda il motivo, perché lo fa da solo: «E sai perché?»: appoggia la sigaretta e con la mano destra si batte il bicipite sinistro, sulla “toppa”. «Per questo», dice.

Nell’open-space di via Savona ci sono decine di collaboratori e compratori che si muovono orbitando intorno al grande tavolo a cui noi siamo appoggiati, soffermandosi su altri tavoli, alzandosi di nuovo per posarsi sulle nuove collezioni esposte, in ordine di colore, sui rack lungo i muri. Carlo individua un giovane collaboratore, naturalmente vestito Stone Island, che sta attraversando la stanza, alza un braccio e lo chiama. «Lorenzo! Lorenzo!». Lui si gira, e Carlo con la mano fa il gesto del 3 con le dita. Lorenzo sorride, e se ne va. La Juventus, la sera prima, ha perso 3-0 contro l’Atalanta in Coppa Italia. Carlo Rivetti, piemontese di nascita ma milanese adottivo, è tifoso dell’Inter. Si mette a ridere.

Il legame che Stone Island ha con il calcio e con il tifo è complesso, delicato, e profondo. Negli anni Novanta diventa, con Burberry, Aquascutum e altri brand italiani come Fila, Tacchini e Ellesse, uno dei marchi di riferimento dei casuals, hooligan molto eleganti che si fecero conoscere, in Inghilterra e in Europa, per essere poco inclini al tifo morigerato e sportivo. È iniziato tutto, racconta Rivetti, per colpa di Éric Cantona: «Non mi ricordo l’anno», dice, «ma Cantona andò in negozio da noi a Manchester e si comprò delle maglie. Poi andò in televisione con le nostre maglie per tre volte di seguito. E da lì partì tutto».

Sorprendentemente, Stone Island è riuscito a non rimanere prigioniero dell’immaginario, ma a sfruttarlo a suo vantaggio: mantiene ancora oggi un certo profumo di stadi, di “terrace culture” – io avevo comprato quel primo maglione soprattutto per sfoggiarlo allo stadio, in curva – ma con una raffinatezza unica. Lo dimostra un altro aneddoto che racconta Rivetti (che ormai, a 63 anni e migliaia di interviste sulle spalle, fa dell’aneddotica una delle sue qualità migliori): «Quando aprimmo il nostro primo monomarca qui a Milano c’era in concomitanza una partita di Champions League in cui giocava una squadra inglese, in trasferta. Noi eravamo ovviamente tutti molto spaventati, e rinforzammo le misure di sicurezza per l’inaugurazione. Io che sono curioso però andai a vedere. E vidi questi gruppetti di tifosi inglesi che entravano in negozio, aprivano la porta, e cominciavano a parlare con la voce così bassa, con un’educazione… come quando vai in chiesa, come quando vai al tempio».

Ci sono diverse strade che possono spiegare l’unicità di Stone Island. La prima è la vita personale di Carlo Rivetti, la sua educazione estetica, che non è quella tradizionale di un imprenditore, ma è un’educazione che dal tessile si muove all’artistico, e con quelle valigie riempite di una conoscenza nuova, al tessile poi torna. «Io ho una cultura tessile-abbigliamento», racconta, «ma ho avuto la fortuna di vivere in una famiglia con un gusto estetico piuttosto importante. Mia madre è stata una grande collezionista di arte contemporanea, e fin da piccolo ho potuto avere tutta una serie di frequentazioni che mi hanno permesso di sviluppare questo senso estetico qui». Carlo riattacca con gli aneddoti: le serate con Gilberto Zorio e Mario Merz, «avevo 25, 27 anni, e vivere con loro la costruzione e l’elaborazione della loro arte è stata una cosa meravigliosa», gli allestimenti del Castello di Rivoli, di cui era vicepresidente, con Joseph Beuys, «queste enormi vasche piene d’olio», ricorda della mostra Olivestone, a new idea of art del 1984, le bevute sempre con Merz, «io l’ho conosciuto al MoCa in California, sono andato da lui, questo omone, questa figura quasi biblica, e gli ho detto mi scusi signore sono Carlo Rivetti. Lui mi ha preso e siamo andati subito a bere».

La seconda strada per spiegare questa unicità è il processo di ricerca alla base della nascita di ogni capo Stone Island, un qualcosa che sta tra l’avanguardia tecnologica e l’alchimia, declinato però su delle giacche o delle maglie. È facile collegare questa tensione alla sperimentazione – le tinture in poliestere, i capi in fibra di bronzo, le spalmature di microsfere di vetro, tutto realizzato nel laboratorio di Ravarino, nella campagna modenese – al brodo artistico in cui Rivetti si è formato, e infatti delle sue creazioni dice: «È la cosa più vicina a un affresco. Ma insomma tecnicamente È un affresco! Solo che è fatto su base tessile. Lo so che ci complichiamo la vita, tutte le tinture, tutte le lavorazioni, ma io mi diverto così».

È anche facile pensare, in questo contesto, alla confusione socio-politica in cui il mondo ha scelto di buttarsi molto consapevolmente, e a quanto questo contrasti con la bolla di Stone Island, con questo elogio della ricerca, della competenza, del coraggio e della sperimentazione. «Lo so, non stiamo vivendo tempi facili per la ricerca», dice lui, «ma paradossalmente in questi stessi anni abbiamo messo in cantina uno stock di creatività che ancora non riusciamo a esaurire nelle collezioni. Per cui se io smettessi di investire oggi in ricerca credo che per i prossimi dieci anni continueremmo comunque a fare innovazione».

Adesso poi c’è la questione dell’onda, continua Carlo, quindi, sempre “paradossalmente”, le cose per Stone vanno benissimo. «Questa onda fantastica», la chiama, «che ci sta portando avanti in tutti i mercati». Come è successo? È un po’ una questione di intuito, di ascolto, e un po’ di coerenza e di essere sicuri di essere nel giusto, che sembra una frase fatta ma è una delle cose più difficili che ci siano, non cambiare mai. «Però così crei un senso di appartenenza in tutte le persone che arrivano a contatto con il marchio, e questo è bellissimo. E anche difficile perché poi non ti perdonano niente». L’onda sarebbe in un certo senso quella dello streetwear diventato una specie di nuovo formale, di Virgil Abloh direttore creativo di Louis Vuitton, della strada in passerella: «Io ho sempre sostenuto che noi dovevamo andare dritti per la nostra strada e che il mondo, che invece oscilla sempre, prima o poi sarebbe venuto da noi. Ed è quello che sta succedendo. Sta andando nella direzione che io ho sposato anni e anni fa».

C’è un aneddoto che Rivetti ripete spesso, e riguarda il momento dell’eureka, della teorizzazione della strada come nuovo formale. È l’aneddoto delle scarpe da tennis. «L’ho capito», e intende che l’epoca delle giacche e delle cravatte portate tutto il giorno, tutti i giorni, era finita, «quando mi sono reso conto che i giovani andavano in giro con le scarpe da ginnastica. La rivoluzione parte sempre dai piedi». Quei giovani che Carlo aveva osservato adesso non sono più giovani, e la stessa Stone Island ha seguito in questi decenni sì una linea retta, ma si è riorganizzata al suo interno anno dopo anno: il cambiamento più importante è del 2008, da quando la creatività non è più nelle mani di un solo uomo – prima Carlo Osti, poi Paul Harvey – ma di un team formato da molte persone, dirette da Rivetti. Lui stesso è cambiato: ha smesso di fumare da due anni – «ma sai qual è la cosa bella? Che se mi fumano vicino non mi dà fastidio», dice tutto contento – e, anche se si diverte ancora «come un bambino» a lavorare sostiene che il vero lusso «è stare a piedi nudi in una spiaggia. Anzi, completamente nudi». Se pensa al domani e al dopodomani, e alle mani in cui lascerà, un giorno, Stone Island – mani giovani – dice di essere tranquillo: è tutto impostato, la scorta di creatività, l’innovazione preservata per il futuro, è tutto a posto. E anche sulla solidità dell’onda ha pochi dubbi: «È vero che nelle nuove generazioni c’è una grossa componente di… diciamo “moda”, ma mi accorgo che i giovani capiscono i nostri valori. Conoscono la nostra storia, conoscono i pezzi storici. Ormai abbiamo una trasversalità incredibile». Prende la giacca che si è appena tolto, un capo della collezione invernale del 2008, la agita un po’: «Un capo così o ti piace o no, non c’entra né il sesso, né l’età, né il genere, né la religione, né il tifo. Se ti piace lo compri».

Intervista tratta dal numero 26 di Undici
Foto di Federica Sasso