Perché il Bayern Monaco vince sempre?

Il modello dei bavaresi è vincente perché riesce a fondere una radicata identità tedesca e l'apertura verso il mondo esterno, verso il futuro, in campo e in società.

Il Bayern Monaco (BM) delle tre Coppe Campioni a metà anni Settanta – quello di Maier e Beckenbauer, di Gerd Müller e del giovane Rummenigge – era un team rigidamente autoctono: tra i pochi stranieri concessi dalle normative, solo nordici, come il terzino danese Hansen o la punta svedese Torstensson. Il BM attuale – quello di due stagioni, 2019/20 e 2020/21, che il Covid-19 ha reso contigue e interminabili come il “lungo inverno” del Trono di Spade – è uno dei massimi esempi di melting pot esistenti: un BM “afro” (o meglio afro-tedesco, europeo e americano) in cui a giocatori-colonne come Alaba e Boateng si sono aggiunti i vari Gnabry e Coman, Zirkzee e Musiala, Davies e Richards, fino agli inserti estivo-autunnali di Sané, Choupo-Moting e Bouna Sarr (sfumando invece al Barça, con irritazione del club, quello di Dest, che avrebbe formato con Davies la coppia di esterni nordamericana). L’unico legame coi Settanta, per questi ragazzi next-gen, è quello dell’hairstyle anarcoide, con zazzere da Nba di allora; a cui si lega – magari con differenze di tono: minor utopismo, maggior pragmatismo – anche il relativo slancio engagé, come mostra la loro adesione entusiastica alla presa di posizione societaria in favore del movimento Black Lives Matter dopo l’omicidio di George Floyd (Rummenigge in primis, che indossa anche la maglia con l’altro hashtag, “Rot Gegen Rassismus”, “i rossi contro il razzismo”).

Il contrappunto tra i due Bayern e l’adozione di rose “mixed” così profonde e varie, tese ad abbassare l’età media del team – una delle risposte più efficaci a stagioni sempre più usuranti e ora all’invasività sportiva del Covid – non è solo un inevitabile esito stoico della globalizzazione. Come non lo è solo delle pur decisive politiche tedesche – sportive e governative – dell’ultimo quarto di secolo, tali da aver eletto il “movimento” a vera new wave europea: la vasta rete delle Academies (concepita e affidata al “sassone” Dietrich Weise, si ricordi, addirittura nel ’96, dopo un Europeo vinto, ma in modo opaco) coll’immenso bacino di scouting dei loro “training camps”; l’assenza di limite al tesseramento di extracomunitari (specchio di scelte simili a livello politico-economico, vedi integrazione di turchi e siriani); la sostanziale unità (o almeno non-litigiosità permanente) di Lega e Federazione.

Quel contrappunto è anche l’esito dei tratti strutturali del BM, di una filosofia e di una politica societarie tese, fin dalle origini del club, a esercitare una conciliazione tra elementi in tutto o in parte contrastanti: per esempio, tra forte senso di identità (legame col territorio) e disponibilità a confronti/influenze esterne; o tra rispetto per la tradizione (delle certezze acquisite) e incessante apertura alla sperimentazione, a livello di gestione economico-finanziaria come di orientamento tecnico-tattico. In sintesi, è come se la società bavarese cercasse di modularsi sulle caratteristiche intrinseche di un organismo biologico: robustezza e plasticità, cioè i tratti “invarianti” (genetici) e quelli plasmati dall’interazione tra geni stessi e ambiente (epigenetici).

Quando si parla di origini del club, ci si riferisce a un nome preciso, quello di Kurt Landauer, che sta al BM un po’ come Santiago Bernabéu al Real. Con un discrimine radicale: il Bayern è stato (ed è) storicamente una squadra dell’establishment, mai (a differenza del Real franchista, come franchista era Bernabéu) del regime. Del resto, proprio la parabola di Landauer – di fatto, il Padre culturale – lo farebbe escludere alla radice. Nato nel 1884 a Planegg – poco fuori Monaco – da una famiglia ebrea che gestisce un negozio di vestiti femminili, Landauer approda alla società nel 1901 (l’anno dopo la fondazione) come secondo portiere. La guiderà in tre fasi a singhiozzo, di diversa durata e consistenza. La prima (un solo anno) viene interrotta dalla Grande Guerra, che Landauer combatte al fronte guadagnandosi la Croce di Ferro. La seconda – decisiva – si estende dal 1919 al ’33, con una breve interruzione nel 1921/22: è in quel periodo che Landauer imposta i criteri concettuali e operativi del club, dallo spazio dedicato al settore giovanile (allora break assoluto) alla proposta di stipendiare i giocatori (con le risorse in origine destinate allo stadio) agli incontri “istruttivi” con club esteri (svizzeri, austriaci e ungheresi, il top del momento). Criteri che porteranno al Bayern, nel ’32 – sotto un tecnico a sua volta ebreo, Richard Kohn – il primo titolo nazionale, festeggiato con una parata cittadina su una carrozza trainata da cavalli bianchi.

Il Reich non gradisce: vede nel BM uno “judendclub” (come saranno Ajax e Tottenham); nel calcio professionistico una “corruzione capitalistico-giudaica”; e nei match internazionali un rischio di “contaminazione” razziale. La via di Landauer è segnata: nel marzo del ’33 – poco dopo l’incendio del Reichstag – lo costringono a lasciare il suo ruolo di vertice dall’editore di giornali Knorr & Hirth per un modesto impiego nella lavanderia ebrea Rosa Klauber; e nell’ottobre ’38 – dopo la Notte dei Cristalli – viene condotto a Dachau, uscendone dopo 33 giorni e riuscendo a riparare in Svizzera solo grazie al suo passato militare. L’esilio è illuminato da un episodio toccante nello stadio di Ginevra, quando nel ’43 (sotto gli occhi della Gestapo, che minaccerà conseguenze) i giocatori del BM in amichevole contro gli elvetici riconoscono in tribuna il “loro” presidente, accorrendo a salutarlo. Un’empatia decisiva qualche anno dopo nel convincerlo a respingere la tentazione di un’esperienza newyorchese e ad accettare l’incarico del terzo ciclo al BM (’47-’51). Per cogliere, da quel momento, il citato riflettersi dell’intelaiatura “strutturata e aperta” del sistema-Bayern (il rapporto, spesso intrecciato, tra tradizione e innovazione, tra localismo autarchico e respiro internazionale) sia sull’identità di gioco che sulla gestione patrimoniale, è forse utile risalire a due zoomate specifiche, differite nel tempo.

Il Bayern conquista a Milano, contro il Valencia, la quarta Champions League della sua storia: è il 2001, e il grande protagonista di quel trionfo è Oliver Kahn, decisivo nella lotteria dei rigori dopo il pareggio per 1-1 al termine dei supplementari (Gabriel Bouys/AFP via Getty Images)

L’identità di gioco viene innovata per la prima volta quando arriva in panchina (1963, sotto un’altra presidenza illuminata, quella di Wilhelm Neudecker, ’62-’79) il croato Zlatko Cajkovskij detto Czik (proprio come il musicista russo), ex difensore tecnico chiamato a Monaco dopo essersi fatto le ossa all’estero e aver vinto il titolo col Colonia. Il punto è che a Colonia ha sede la leggendaria Accademia in cui ha a lungo insegnato (anche a Czik) Hennes Weisweiler, coach avanguardista che approderà al Borussia Mönchengladbach l’anno dopo, nel ’64 (ma dopo aver allenato ovunque). Né Czik né il suo maieuta (che sarà anche mentore di Jupp Heynckes) arrivano a co-inventare/mutuare tratti dell’incipiente Total Voetbal olandese: l’uno più versato al possesso, l’altro al contrattacco organizzato, prescindono tutti e due sia dal gioco posizionale che dal pressing ajacide; pressing che in Germania arriverà davvero con l’importazione del sacchismo da parte di Ralf Rangnick e del mentore di Klopp, Wolfgang Frank. Però, sono i primi breaker. L’apparente paradosso è che Czik e il suo successore-connazionale Branko Zebec (ex eccelso terzino-ala) esercitano una “fondazione” (anche tecnica, con la dorsale Maier-Beckenbauer-Müller) che porta grandi risultati interni ma solo una Coppa delle Coppe in ambito europeo, dove trionferanno invece negli anni a seguire gli autoctoni Udo Lattek (altro coach sperimentale) e il “Napoleone” (coi suoi 161 cm di altezza) Dettmar Cramer.

Un apparente paradosso che si ripeterà nel nuovo millennio, con le lunghe semine di gioco posizionale di Van Gaal e Guardiola come nobili interregni tra le Champions vinte da altri autoctoni come Hitzfeld, Heynckes e ora Flick; apparente perché in realtà è come se – per vincere – il BM dovesse rendere “ben temperate” le importazioni-acquisizioni periodiche, ruminarle e metabolizzarle nel proprio calcio metastorico fatto di fisicità, equilibrio, concretezza. Quanto all’ambito economico-finanziario, il momento-chiave è in anni più vicini a noi, proprio nell’era-Guardiola, quando il BM completa un percorso di crescita su diversi piani: estingue con largo anticipo (2014 anziché 2030) il mutuo contratto con Allianz per la costruzione del nuovo stadio; la stessa Allianz entra in quell’anno nell’assetto proprietario a formare le 3A (con Audi e adidas) del 25% non controllato dall’AS FC Bayern München (250.000 soci, secondo la regola introdotta nel ’99 – per la verità non rispettata da tutti – del “50% più 1” a azionisti multipli per impedire concentrazioni in un singolo investitore); e il merchandising arriva nel 2015 a ricavi per 100 milioni annui.

È l’istantanea di uno dei 144 gol segnati da Arjen Robben con la maglia del Bayern Monaco, ma è anche un momento storico per il club bavarese: nel 2013, dopo la vittoria nella prima finale tutta tedesca della storia, contro il Borussia Dortmund, il Bayern diventa il primo club tedesco a conquistare il Triplete. Ci riuscirà di nuovo nel 2020 (Martin Rose/Getty Images)

È in quel periodo – e grazie a quella solidità di bilanci di-ventata proverbiale – che la società può concludere anche un percorso di globalizzazione del marchio iniziato negli anni precedenti attraverso legami commerciali con imprese estere come Samsung o Yingli Solar (azienda cinese delle rinnovabili): sempre nel 2014 la società apre un ufficio a New York per gli acquisti e-commerce negli Usa e trova un’intesa con Global Premier Soccer (GPS), organizzazione-leader nella formazione dei giovani calciatori; e nel luglio 2015 porta il brand in Cina, in una tournée tra Pechino e Shanghai. Una solidità, per inciso, che ha permesso al Bayern persino di rimediare, nel 2005 – con prestito di giocatori e iniezioni di liquidità, in un’ottica di solidarismo altrove impensabile – alla crisi degli “avversari” del Dortmund, sull’orlo di un crash senza ritorno.

Alla fine, per sintetizzare l’identità composita del BM, a partire dallo “stile di gioco”, è possibile ricorrere a due analogie. La prima, quasi ovvia, è tra architettura e design: l’equivalente immediato dello stile-Bayern (geometrico ed essenziale persino quando assorbe il sofisticato gioco posizionale di Pep, al punto da influire – in un feedback reciproco – sulle concezioni del tecnico catalano) è il Bauhaus col suo principio-guida, “la forma segue la funzione”; e se il Bauhaus nasce a Berlino, è il suo stesso fondatore, Walter Gropius, a ricordare come si ispiri alla Deutsche Werkbund, associazione fondata a Monaco nel 1907 – gli anni del giovane Landauer – per dare un’estetica alla produzione artigianal-industriale tedesca. Il conflitto che la Werkbund cerca di comporre – tra “permanenza” e “mutamento”, tradizione autoctona e influenze straniere – ci riporta, ancora una volta, al modello “strutturato e aperto” del BM.

Alphonso Davies e Robert Lewandowski, i due uomini simbolo del Bayern contemporaneo, tra tradizione e modernità (Stuart Franklin/Getty Images)

La seconda analogia – più sofisticata – ci sposta verso le case discografiche di musica classica, così importanti in un Paese che ha dato a quel “genere” più di qualunque altro, nella creazione come nell’interpretazione. Anche qui l’epicentro è nella capitale, con quella Deutsche Grammophon il cui fondatore (Emile Berliner) riecheggia nel nome la locale filarmonica, unica al mondo. Ma il break arriva – di nuovo – a Monaco, con la Ecm (Edition of Contemporary Music) fondata nel 1969 da Manfred Eicher, basso sax e fanatico di cinema d’essai. Col tempo, l’Ecm si guadagnerà un brand inconfondibile per vari tratti: su tutti, la tecnica di registrazione innovativa (attenta al rapporto tra suono e spazio) e l’artwork delle cover e dei booklet (tra design minimal-Bauhaus e foto di astrazione cosmologico-metafisica). E soprattutto, si connoterà per l’inedito metissage di generi, immettendo dall’84 la musica “classica” (Ecm New Series) in un catalogo fino a quel momento incentrato sul jazz (specie post-fusion). In questo senso, l’emblema del marchio diverrà Keith Jarrett, con decine di incisioni.

Proprio Keith Jarrett – in realtà un americano di origini sloveno-ungheresi e scozzesi-irlandesi, ma “afro” per formazione musicale, gusto e look, col suo hairstyle a lungo simile a quello che oggi esibisce Gnabry – può essere (con l’Ecm tutta) l’equivalente del BM di questi anni. Non è un paragone di valore, ovviamente; ma nell’ascoltare un Bach o un Händel suonato da lui (o anche solo il concerto Munich 2016) e nel veder giocare questo Bayern-next gen, c’è una comunanza di Stimmung, la si traduca “atmosfera” o, in senso musicale, “intonazione”.

Dal numero 35 di Undici