Anche la Premier League ha i suoi lati oscuri

Un calendario troppo fitto, un problema con le minoranze, un modello che forse è arrivato alla saturazione.

Al 60esimo minuti di Liverpool-West Bromwich di domenica 27 dicembre 2020, Joel Matip si è fermato per un fastidio all’adduttore. Un infortunio muscolare, un altro infortunio muscolare, in una stagione in cui Jürgen Klopp sta facendo fatica a schierare una formazione che non sia dettata, anzi obbligata dalla lista degli indisponibili. Il caso di Matip e dei Reds, però, non è né unico né raro: tutti i club inglesi, chi più chi meno, sono rallentati dai problemi fisici dei loro calciatori. Il sito Premier Injuries al momento conta 82 infortuni tra le venti squadre.

Forse era una cosa piuttosto prevedibile già prima dell’inizio di una stagione a cui tutte le squadre europee sono arrivate con scarsa preparazione atletica – vista la chiusura estiva o addirittura tardo-estiva di campionati e coppe internazionali – e con la data di chiusura non prorogabile a causa di Europei e Giochi Olimpici dell’estate 2021. Ma per le squadre della Premier League sembra tutto elevato a potenza rispetto resto d’Europa. Non è solo un caso, non può esserlo: la lega calcistica più importante del mondo ha infatti deciso, ad esempio, di rinunciare alla regola delle cinque sostituzioni; è l’unico grande campionato che ha preso questa decisione, motivandola con la volontà di non avvantaggiare i grandi club, quelli con rose più lunghe.

Se in Italia, Germania, Spagna, Francia le cinque sostituzioni sono state mantenute anche dopo la ripresa estiva, in Inghilterra si discute dell’abolizione di questa regola praticamente dopo ogni giornata. Anzi, dopo ogni singola partita. Le critiche  arrivano soprattutto da chi è impegnato nelle coppe europee – dove tra l’altro si possono fare cinque sostituzioni, ovviamente. Se n’era parlato l’ultima volta in assemblea prima di Natale e la proposta è stata nuovamente rifiutata: fin qui l’unica concessione è la possibilità di portare nove uomini in panchina anziché sette – nemmeno un contentino particolarmente generoso – e sono state approvate le sostituzioni extra per commozione cerebrale, solo che queste non hanno a che fare con la fatica e le rotazioni tra i giocatori in rosa. Aggiungere due sostituzioni probabilmente non eliminerebbe gli infortuni muscolari, ma di certo aiuterebbe a contenere gli sforzi per i singoli giocatori. E non sarebbe poco, in una stagione così.

Certo, non è la regola delle sostituzioni a rovinare la Premier League, che era e rimane il miglior campionato di calcio al mondo, quello che si vende meglio degli altri, che comunica meglio degli altri, che sa reinventarsi anno dopo anno meglio di tutti gli altri. Però questa decisione palesemente fuori sincrono rispetto a tutte le realtà del calcio contemporaneo è la dimostrazione che anche in Inghilterra non tutto funziona alla perfezione, che non è tutto oro quel che luccica.

Quel che vale per le cinque sostituzioni si può declinare anche su altri aspetti. Prendiamo il caso della Coppa di Lega, cioè la English Football League Cup, che per motivi di sponsorizzazione è nota come Carabao Cup. Le squadre della Premier League restano le uniche dei grandi campionati europei a giocarsi due coppe nazionali: anche la Coupe de la Ligue francese, la seconda coppa nazionale che impegnava le squadre di Ligue 1 e Ligue 2, è stata sospesa quest’anno, e non è detto che ritorni in futuro. A causa della Coppa di Lega, le squadre inglesi impegnate in Champions League ed Europa League, che quindi hanno giocato tre partite internazionali tra il 24 novembre e il 10 dicembre, hanno dovuto aggiungere pure i quarti di finale della Carabao Cup (22 e 23 dicembre); e a inizio gennaio ci saranno il terzo turno di FA Cup e le semifinali di Carabao Cup. Così le due di Manchester e il Tottenham si ritroveranno ad aver giocato 16 partite (l’Arsenal si “fermerà” a 15) in 57 giorni. La media è di un match ogni 3,5 giorni, praticamente uno ogni 80 ore. Sembra più un programma punitivo che un calendario calcistico.

Perché poi ovviamente anche la tradizione del Boxing Day non poteva essere intaccata e infatti le gare del 26 dicembre non sono state annullate o rinviate, nemmeno nell’anno della pandemia. Così molte squadre di Premier League si sono ritrovate a giocare due partite in 48 ore, con tutto quel che comporta in termini di rischi per i giocatori. E poi, giusto per infilare il dito nella piaga: anche questo avvantaggia le squadre con una rosa lunga, tanto quanto le cinque sostituzioni (se non di più). Ma al Boxing Day no, non si poteva proprio rinunciare.

Nel 2020, il Liverpool di Salah e Firmino ha vinto il suo primo titolo nazionale inglese dopo 30 anni (Alex Broadway/Getty Images)

C’è qualcosa che stona tra la patina glamour che ricopre qualsiasi cosa riguardi o racconti la Premier League e il nonsense di alcune decisioni – siano esse dettate dal marketing, dal conservatorismo, dalla testardaggine, da qualsiasi cosa – che in questo momento non sembrano produrre grossi benefici per i club che la compongono. Se è vero che il campionato inglese è il migliore di tutti, è anche vero la cornice non è sempre all’altezza, al di là della perfezione dei campi, dei colori brillanti delle maglie e tutti gli aspetti estetici in cui eccelle. E se il Boxing Day, il numero delle sostituzioni e la Carabao Cup influiranno il giusto sull’immagine della Premier, altri aspetti potrebbero avere un peso decisamente maggiore. Non più tardi di sei mesi fa, infatti, Raheem Sterling aveva sollevato il problema della disparità di opportunità di lavoro per allenatori e dirigenti appartenenti a minoranze: ci sono solo sei manager inglesi appartenenti alla comunità Bame (Black, Asian and minority ethnic) sui 92 di Premier League e delle altre divisioni della English Football League, la seconda lega professionistica del calcio inglese, che organizza Championship, League One e League Two. Un numero troppo basso, considerando anche la composizione multietnica di tutte le rose della massima divisione, ma anche i tanti stranieri presenti nei campionati di livello inferiore. Per non parlare dei tifosi, espressione di una società tendenzialmente integrata come quella anglosassone.

«Gli organismi di calcio sembrano non sentirsi responsabili nei confronti delle persone che amano questo sport, o di doverli rappresentare», ha scritto il deputato conservatore britannico Julian Knight su PoliticsHome, in un articolo intitolato “The ugly side of the beautiful game”. «Quello che sappiamo è che ci sono pochi allenatori neri; che le donne sono sottorappresentate e hanno difficoltà ad a svolgere gli allenamenti in sicurezza come gli uomini; che i dirigenti neri si confrontano con organi di governo con poca voglia di cambiamento; che i giocatori gay vedono uno sport che non fa per loro. La Gran Bretagna moderna è varia e inclusiva. È ora che lo sia anche il suo calcio». C’è qualcosa di più profondo e delicato delle cinque sostituzioni e del Boxing Day che mina l’immagine della Premier.

Il Manchester United e il Chelsea sono i due club che hanno conquistato il maggior numero di edizioni della Premier League dallo scisma del 1992: i Red Devils hanno vinto il titolo per 13 volte, i Blues sono a quota cinque (Oli Scarff/AFP via Getty Images)

Tutti questi nodi, più o meno grandi, più o meno risolvibili, sono i sintomi di una strategia che, negli ultimi anni, si è concentrata sulla crescita del business sportivo ad ogni costo, e forse si è persa nella cura di alcuni dettagli, come chi si concentra troppo sulla sua immagine riflessa allo specchio e si dimentica del contesto, o almeno di qualcosa. Anche il campo in qualche modo riflette gli stessi piccoli ma significativi problemi. La competitività altissima della Premier League da anni costringe i club – dalla dirigenza al campo – ad assumersi sempre meno rischi, a sperimentare meno, ad avere meno pazienza. Il Chelsea dell’ultima estate ne è una prova: i Blues hanno rivoluzionato un progetto basato su un nucleo giovane e di grande prospettiva per andare in modalità win now, con il rischio di bruciare un lavoro di sviluppo graduale che sembrava molto promettente dopo la scorsa stagione – un modello che tra le altre cose sembrava anche più adatto a un manager come Frank Lampard. Ma lo stesso vale per il Manchester City, che è riuscito a frenare – almeno in parte – lo spirito creativo di Guardiola, quella scintilla che spinge il tecnico spagnolo a reinventare schemi, attribuzioni e tutta la sua squadra, anno dopo anno: semplicemente, il campionato non lo permette. Non che sia un male di per sé, il livello alto della competizione. Solo che in questo modo la Premier League vive in una bolla estranea ad alcune dinamiche che caratterizzano e fanno evolvere gli altri campionati, che permettono a molte squadre europee di reinventarsi, di aprire e chiudere cicli.

Per questo, per la sua grandezza, la Premier League è praticamente costretta a importare talento dall’esterno, a immettere nel suo sistema giocatori già pronti, già formati, se non addirittura già pienamente affermati. Non è un caso che quello inglese sia il massimo campionato europeo con la più alta quota di giocatori stranieri (62,7%). Una condizione che, ancora, non va vista necessariamente come un problema in quanto tale, piuttosto è il riflesso di un sistema che non riesce a produrre da sé il talento necessario per rispettare gli elevatissimi standard richiesti. Così anche le opportunità di vedere qualcosa di nuovo, a livello tecnico e tattico, si riducono alle piccole squadre, anzi alle piccolissime, quelle che devono per forza provare a innovare, a sorprendere, a sviluppare metodi diversi per poter sopravvivere, per ppoter sostenere un certo livello di qualità. È per questo che la Premier League, pur restando – per distacco – il campionato di calcio più visto al mondo, con un brand e una visibilità senza paragoni, deve essere un modello per la Liga, la Bundes, la Serie A, anche per la Ligue 1, ma forse non è giusto imitarla in tutto e per tutto, quando c’è da disegnare il futuro.