Belotti è un giocatore completo, grazie al Torino

In un club più ricco e più ambizioso, forse non avrebbe avuto il tempo per crescere così tanto.

Andrea Belotti ha 27 anni. Li ha compiuti da poco, il 20 dicembre. È giovane, ma non è più davvero giovane. Questo potrebbe rappresentare un problema, soprattutto in un’era come questa, in cui i grandi giocatori vengono percepiti come tali solo quando riescono a esserlo per tantissimo tempo, dal momento in cui diventano professionisti fino al termine della carriera. Belotti, invece, ha un vissuto diverso, la sua è stata una crescita più lunga, più articolata. Più difficile, da un certo punto di vista. È migliorato molto, ma si è preso tanto tempo per farlo. Al punto che – più di una volta – siamo stati indecisi sul fatto che potesse/dovesse essere considerato un grande attaccante. E lo siamo ancora.

Il punto è proprio questo, però: cos’è, o meglio chi è un grande attaccante? Quanto pesano il contesto e le contingenze nella valutazione di un giocatore, della sua carriera? Mi sembra evidente che, in casi come quello di Belotti, certe categorizzazioni siano troppo nette. Troppo escludenti. I numeri, infatti, dicono che Belotti deve essere considerato un grande attaccante: i 101 gol realizzati in 206 partite con il Torino, ovvero una squadra di seconda o anche terza fascia in Serie A, dovrebbero bastare per inserirlo immediatamente in questa lista.

Eppure non è così, non è automatico farlo: secondo i suoi detrattori, infatti, Belotti non può essere considerato un giocatore di primo livello perché non si è mai misurato con le ambizioni e le pressioni e le responsabilità di una grande squadra di club; e perché con l’Italia – ovvero nell’unico contesto internazionale che ha assaggiato, al di là di sei presenze con sei gol nei turni preliminari di Europa League – non è mai stato continuo e determinante, ha segnato dieci gol in 31 partite, ma tutti contro avversari di basso o bassissimo livello (Macedonia, Liechtenstein, Arabia Saudita, Armenia, Bosnia).

La realtà – di Belotti e non solo – è più sfumata. La variabile davvero interessante è la scelta di rimanere al Torino: se effettivamente Belotti non ha avuto la possibilità di migliorare il proprio status, di cambiare il proprio posizionamento sulla mappa internazionale dei grandi centravanti, è vero pure che la dimensione piccolo-borghese del club granata gli ha permesso di crescere come calciatore, di migliorare laddove aveva bisogno di farlo. Belotti non è mai stato solo un puro finalizzatore, ha sempre partecipato al gioco con generosità, con applicazione, magari la sua tecnica non è mai stata brillantissima ma la sua presenza nelle azioni offensive della sua squadra è stata ed è costante. Oggi, però, il suo fisico e il suo dinamismo si accompagnano a tocchi di una certa sensibilità, a giocate intelligenti e decisive, come l’assist servito ieri per Singo – il quarto della sua stagione, poi a fine gara sarebbe arrivato anche il quinto.

In una squadra più ricca, più forte, in cui avrebbe dovuto affrontare una concorrenza più agguerrita, probabilmente non sarebbe riuscito a migliorare così tanto. È una condizione del calcio di oggi, immediato e ipertrofico, in cui i grandi giocatori – Oblak, Varane, Harry Kane, Dybala e Lukaku sono nati tutti nel 1993, come Belotti – si affermano in tempi rapidi e subito in grandi squadre, molto più velocemente rispetto a quanto avveniva nel passato, quando il talento era meno concentrato in pochi club e allora un attaccante del Vicenza (Paolo Rossi nel 1978), del Monaco (Henry e Trezeguet nel 1998) o del Palermo (Luca Toni nel 2006) poteva diventare titolare in Nazionale e poi decisivo in Coppa del Mondo.

Belotti si è trasferito dal Palermo al Torino nel 2015, per lui i granata hanno investito poco più di otto milioni di euro; secondo Transfermarkt, la valutazione di mercato più alta per il suo cartellino è quella registrata attualmente: 40 milioni di euro (Valerio Pennicino/Getty Images)

La parabola di Belotti, ancora viva, ancora tutta da definire, è dunque un’eccezione. Un’anomalia anti-contemporanea. La sua permanenza al Torino  – al netto dell’attaccamento al club e all’ambiente, dell’esito delle trattative vere o presunte che l’hanno coinvolto, del fatto che lui abbia scelto o meno di non lasciare la squadra granata – l’ha reso non solo un attaccante completo, ma pure un giocatore completo. Nelle qualità tecnico-tattiche, nella leadership, nella capacità di caricarsi la squadra sulle spalle, come in questo inizio di stagione così complicato da cui ora la squadra di Giampaolo sta riemergendo. Da questo punto di vista, non c’è dubbio: per quanto riguarda l’evoluzione del calciatore, restare al Torino è stata la scelta migliore.

Questa, se vogliamo, è una lezione di mercato. Di attesa. A 27 anni, Andrea Belotti ha ancora la possibilità di poter sbarcare in una società più ambiziosa del Torino, e, se dovesse decidere di farlo, lo farà con una forza e una consapevolezza maggiori. Non tutti i calciatori hanno gli stessi tempi, non tutti gli uomini seguono gli stessi percorsi, e questa è la lezione. Magari poi andrà diversamente, Belotti deciderà di non cambiare, di diventare un simbolo del Toro, di una squadra che difficilmente potrà offrirgli grandi palcoscenici internazionali, e a quel punto potremmo pensare che Belotti non ha saputo essere un grande attaccante. Fino a che non succederà tutto questo, però, la sua carriera andrà giudicata come il risultato di scelte personali chiare e precise: Belotti ha deciso di lavorare per migliorarsi, per diventare il giocatore che poteva essere, nell’ambiente che riteneva migliore per sé. Il prossimo passo, ora che sembra essere arrivato al suo apice, ci dirà se ciò che gli è bastato finora, e che l’ha portato fino a qui, potrà bastargli ancora.