È servita anche la tradizione, perché il Milan tornasse a essere se stesso?

Una teoria un po' esoterica sulla rinascita rossonera.

L’allarme rosso è scattato l’1 giugno del 2019, quando il Liverpool ha alzato nel cielo di Madrid la sua sesta coppa, ed è risuonato in modo ancor più fastidioso lo scorso 23 agosto, quando Lisbona ha assistito al sesto successo del Bayern. In entrambe le occasioni poteva andar meglio, le due squadre sconfitte – Tottenham e Paris Saint-Germain – avrebbero vinto la loro prima Champions e quindi lo scalino dell’albo d’oro fra secondo e terzo posto sarebbe rimasto di due titoli. Non immediatamente scalabile, quindi.

Invece adesso il vecchio Milan, che con sette fra Coppe dei Campioni e Champions League è il secondo club del medagliere europeo (nel torneo che conta, of course) dietro il distantissimo Real Madrid delle 13 vittorie, deve sperare che quest’anno Liverpool e Bayern – ahimè, sono pure le due grandi favorite – falliscano la prova europea. Se una di loro dovesse arrivare fino a Istanbul – solo a nominarla vengono cattivi presentimenti – e vincere la finale, affiancherebbe il Milan nell’albo d’oro a quota 7.

Sono parecchi anni che il tifoso rossonero vive come un nobile decaduto, costretto periodicamente a cedere le memorie del suo antico prestigio per tirare a campare in attesa della riscossa; nell’ultimo tremendo decennio prima Cristiano Ronaldo ha tolto a José Altafini il primato dei gol realizzati in una stagione di Coppa dei Campioni/Champions League, poi Gonzalo Higuaín ha sottratto a Gunnar Nordahl quello dei gol in campionato. Gioielli che se ne sono andati, e chissà mai se torneranno. Ma ormai è in ballo anche il secondo posto in solitudine nella gerarchia della Champions, e questa è un’altra cosa: un vanto che equivale a una stola trapuntata di diamanti, di superiore c’è soltanto la corona, che oggi nessuno può disputare al Real Madrid. Oggi.

Fa impressione pensare che nel 1994, con la fragorosa vittoria di Atene sul Barcellona super favorito, il Milan si fosse portato a una sola coppa di distanza dai madridisti (5-6) e che ancora negli anni 2000, dopo un’altra Atene trionfale, quella della rivincita sul Liverpool, il Real conducesse “soltanto” 9-7. Erano stagioni in cui Silvio Berlusconi, usando la sua storia calcistica come un’arma politica, ripeteva nelle tribune elettorali di aver vinto il doppio dei trofei di Santiago Bernabéu, il che doveva essere un’evidente garanzia di buongoverno. Che poi a livello di Champions stiamo 6-5 per lo spagnolo, ma resta comunque una frase a effetto da pronunciare su un palco. Il partecipante medio a un comizio non te la contesterà mai.

Con 30 trofei domestici, tra cui 18 scudetti, e 18 titoli europei (record nazionale), il Milan è la seconda squadra italiana più titolata in assoluto. Il primo successo risale al 1901, anno del primo scudetto, l’ultimo è la Supercoppa Italiana del 2016 (Allsport UK /Allsport)

Il Milan non partecipa nemmeno alla Champions di quest’anno, qualsiasi cosa venga fuori da un’edizione così fragile, perché la grande rimonta del dopo-lockdown è valsa soltanto un posto nei preliminari di Europa League. Dove in una notte apparentemente insignificante, umida di pioggerella atlantica e fretta di chiuderla per tornare a casa, il Milan ha vissuto un’avventura di tale pathos da oscurare ben presto il basso livello del palcoscenico. La squadra di Pioli si è presa un posto nei gironi sopravvivendo a quattro giri di roulette russa con cinque pallottole e un bossolo vuoto. Una cosa mai vista. Il primo è stato il rigore del pareggio regalato – ma regalato, eh! – dal Rio Ave al minuto 119 e 50 secondi. Gli altri tre sono stati i rigori-match point dei portoghesi, se-segni-vai-oltre, e non hanno segnato mai. Fate il calcolo delle probabilità, e capirete che i quattro giri di roulette russa sono tutt’altro che un’iperbole.

Perché il Milan non è uscito, come sarebbe stato normale? La mia teoria, un filo esoterica ma tant’è, riguarda la sua storia, la “tradizione” per usare un termine di fronte al quale un tempo tiravo sempre fuori la pistola, e declinato bene ha invece un senso molto più profondo di quanto pensassi da ragazzo. Gli sconosciuti – non è un’offesa, ma la pura realtà – del Rio Ave sono andati sul dischetto pensando a quanto avrebbero raccontato un giorno ai nipotini. «Io una volta ho eliminato il Milan. Sì, hai capito bene, proprio tuo nonno». E hanno regolarmente sbagliato perché la tradizione del rivale li ha schiacciati: estremizzando un po’, se avessero avuto il carattere e la freddezza per eliminare il Milan non avrebbero giocato (con tutto il rispetto) nel Rio Ave.

Il Milan ha vinto l’ultima Champions League, la settima della sua storia, nella stagione 2006/07; i trionfi precedenti sono arrivati nel 1963, 1969, 1988, 1989, 1994 e 2003 (Jamie McDonald/Getty Images)

Naturalmente c’è un effetto collaterale. Nei lunghi anni del disimpegno sempre più marcato di Berlusconi e dell’uscita alla ribalta di cordate improbabili – per non dire incredibili nel vero senso della parola – la tradizione ha reso la maglia rossonera insopportabilmente pesante per una generazione di giocatori che in altri tempi non sarebbero neanche entrati a San Siro. Ora che qualcosa sembra finalmente quagliare – e non ditemi che Theo Hernández narebbe venuto e soprattutto sarebbe rimasto se non glielo avesse proposto Paolo Maldini, a proposito di storia – si rileggono gli avvenimenti del recente passato alla luce di quanto si è saputo poi.

Nel 2016, per esempio, il Milan si è giocato un jolly con i suoi tifosi esausti battendo a San Siro la grande Juventus dei nove – allora erano cinque – scudetti consecutivi. E siccome la squadra a disposizione di Montella non poteva bastare, è stato chiamato un uomo dal futuro: Manuel Locatelli. Il gol ve lo ricordate, uno splendido tracciante di destro sul quale Buffon non poté nulla. Ora fate mente locale liberandovi dalle convenzioni: secondo voi quel tiro perfetto l’ha scoccato il Locatelli del 2016, mediano grigio e lezioso del quale il Milan si liberò senza nemmeno prevedere una clausola di riacquisto, oppure il Locatelli del 2020, ovvero la miglior mezzala italiana per distacco? Esatto.

La tradizione non funziona soltanto da crioterapia – l’infinita giovinezza di Ibra – ma anche da macchina del tempo. Con Baresi e Maldini non si notava perché loro sono stati forti dall’infanzia alla pensione, ma Locatelli ha svelato il trucco. Nell’attesa di un nuovo cavaliere bianco che risollevi le sorti del club – esperienza ciclica nella sua storia – il Milan quest’anno si accontenterebbe di vedere bloccata l’ascesa di Liverpool e Bayern. E di tornare in Champions l’anno prossimo, per difendersi da sé.

Dal numero 35 di Undici