Questo gruppo di amici che ci piace molto leggere organizza un festival, in Sardegna, dove invitiamo scrittrici e scrittori a parlare dei libri, con leggerezza. Tant’è vero che il festival si chiama Sulla terra leggeri, come il libro quasi omonimo di Sergio Atzeni. Lo scorso anno abbiamo fatto tutto online, come molti del resto, ma lo abbiamo fatto in pieno lockdown anche se all’inizio non ero per niente convinto. Mi son lasciato trascinare e durante uno degli episodi di questo strano contenitore, forse addirittura l’ultimo, per qualche assurdo motivo ci è sembrata una buona idea invitare il centometrista Filippo Tortu a parlare di atletica e la traduttrice Yasmina Melaouah a parlare di Camus. Un po’ per la poca confidenza con Zoom, un po’ perché delle volte ci capita di essere pasticcioni, quel giorno presentiamo Tortu con tutti gli onori del caso ma in collegamento ci appare Yasmina, che in scaletta era prevista dopo. Abbiamo riso, perché ci piacciono i libri ma ci piace anche prenderci in giro, se si presenta l’occasione, ci siamo scusati e siamo andati avanti. Quando davvero toccava a Yasmina abbiamo finalmente parlato di Camus, o meglio l’abbiamo ascoltata parlare di Camus, per l’esattezza di un testo che lei ha tradotto: Esortazione ai medici della peste, preparatorio al romanzo quasi omonimo che sarebbe venuto in seguito. La peste come metafora del male degli uomini, raccontata per tramite di una scrittura che bilancia la tragedia, ci ha detto Yasmina, con un’ombra d’ironia, un pudore quasi storico, ha detto, una punta di leggerezza.
Cosa c’entra tutto questo con il ritorno a Cagliari di Nainggolan? C’entra, in un modo o nell’altro, perché è una storia che ha a che fare con il male e con la leggerezza, ma soprattutto con il concetto di casa, di felicità e di Sardegna.
A un certo punto facciamo a Yasmina una domanda un po’ scema sul suo sentirsi a casa nella nostra isola, forse lo avevamo letto da qualche parte nel preparare l’intervista, forse ce lo aveva detto lei quando l’abbiamo contattata. È una cosa che a noi sardi fa abbastanza sorridere perché in genere viene detta da chi ha passato uno o due volte il ferragosto in qualcuna delle nostre spiagge, e che non sa quanto spietata possa essere questa terra tra novembre e marzo. Ma Yasmina rimanda subito la palla nella nostra metà campo, ci dice che è venuta in Sardegna molte volte, anche in inverno, e che la Sardegna è il primo posto in cui è stata felice, a tredici anni. Fa una citazione della quale non ricorda la fonte, pazienza: «Si dice che siamo nati nel primo luogo dove siamo stati felici». Gioco, partita, incontro. Eccolo qui, spiegato in una frase, il terzo ritorno a Cagliari di Nainggolan.
Radja ha probabilmente più cicatrici che tatuaggi, se le porta dietro dalle strade di Anversa in cui è cresciuto. Anni duri senza un soldo e senza un padre: Marius abbandona la famiglia per tornare in Indonesia, lasciando in eredità debiti e turbamenti. Ne ha parlato spesso, Nainggolan, a cuore aperto, di quanto sia stato difficile, di quanti sacrifici abbia fatto Liz, sua madre, per tenere in piedi la baracca, immaginare un futuro facendo tre lavori per rientrare nelle spese. Sino a che non ci ha pensato lui, Radja, a colpi di tackle e di strappi palla al piede. Un’emancipazione che passa per una grinta fuori dal comune, legata a doppio filo a tutto il male della sua infanzia, sul quale per pudore storico non ci soffermiamo oltre.
Nainggolan arriva a Cagliari poco più che ventenne con il temperamento di chi si è fatto le ossa in mezzo alla strada, un adulto bambino che anzitutto pensa a dare una mano in casa. Nonostante le asprezze del carattere viene accolto nel cuore dello spogliatoio. Stringe amicizia con Conti, Cossu, Pisano, Agostini, Lopez, custodi del senso di appartenenza a una maglia che, fuor di retorica, è qualcosa di più di una semplice maglia. Più ancora di questo, custodi di un modo di vedere il calcio che mette al primo posto i rapporti umani. Tutt’oggi lui e Conti vivono nello stesso palazzo, nel pieno del centro storico, sotto le mura medievali della città alta, o la città bianca, avrebbe detto Atzeni. A Cagliari il Ninja trova calore, amicizia, amore, soldi e successo. È il luogo in cui si scopre felice per la prima volta.
Radja ha fama di bad boy, o quantomeno di casinista, perché è un atleta che fuma e beve, se è il caso di farlo. Il punto è che poi, in campo, è l’ultimo a smettere di correre. Tra il 2010 e il 2013 è il giocatore che ha compiuto più contrasti vincenti nei massimi campionati europei, con 298 tackle vinti. Insomma è uno che suda la maglia, come si dice in curva, e questa è la prima cosa che conta. La seconda è che è uno a cui non frega nulla di farsi vedere nei posti giusti, di frequentare il jet-set. «Posso camminare nei peggiori quartieri e vivere in maniera normale», ha detto a France Football qualche anno fa. Ed è la gente normale, anche a Cagliari, quella che ha sempre frequentato.
A Roma ripete lo stesso miracolo: si fa voler bene da Totti e De Rossi che lo cresimano come romanista, o meglio ancora come uno di casa. I tifosi lo venerano, lui continua a essere casinista, di tanto in tanto, ma soprattutto continua a correre e rubare palloni, e comincia a trovare la via del gol. Anche a Milano saprà farsi apprezzare (lo testimoniano i cori di San Siro durante Inter-Cagliari dello scorso anno), ma probabilmente nello spogliatoio non c’è granché da custodire, da tramandare. «Odio la pioggia e il freddo», ha detto una volta, e adesso eccolo qua, per la terza volta, o quarta, come dice lui, «perché in estate ero già tornato».
Poteva starsene tranquillo e andare in Cina, a guadagnare sei milioni l’anno, ma la sua è stata una scelta di leggerezza, perché la leggerezza è qualcosa che non ha prezzo, qualcosa che rimette in fila le priorità: «Qui mi sento a casa», ha detto, «ora sono felice». Come il giudizio, la leggerezza è una conquista del tempo che passa, arriva magari quando spuntano i primi capelli grigi. A Nainggolan – 33 anni a maggio – sono spuntati i capelli rossi, quasi fucsia, per il quarto ritorno in Sardegna.
Torna in un momento di crisi e subito si carica la squadra sulle spalle: contro il Benevento, in venti minuti, scodella una palla gol sulla testa di Pavoletti e scaglia in porta un tiro impossibile da cinquanta metri, deviato in corner per il rotto della cuffia. Da quel corner arriva il gol del vantaggio. Poi Radja piano piano si spegne – cinque mesi lontano dal campo sono tanti – e insieme a lui si spegne il Cagliari, che finisce per perdere ancora. In una rosa zeppa di giovani adesso è lui il custode di certi valori, sta a lui trasmettere quel senso di appartenenza, quel calore che trasforma una squadra in gruppo di uomini. Del resto, per dirla con Camus, «in mezzo ai flagelli s’impara che negli uomini ci sono più cose da ammirare che da disprezzare».