Come si misura il livello di qualità di un campionato rispetto a tutti gli altri? Se gli unici parametri di riferimento sono le vittorie internazionali dei club che vi partecipano, e l’appetibilità economica e mediatica del brand (che è a sua volta un’equazione delicata tra il valore delle singole squadre, le prospettive di crescita corporativa, l’affidabilità e la visione della governance, la condizione e la futuribilità di impianti e infrastrutture), allora la Serie A paga un’evidente distanza rispetto ad altre leghe.
In realtà, però, siamo soprattutto noi italiani a dipingere il nostro campionato con eccessiva negatività, e non solo perché anche gli altri grandi tornei europei, tra cui la stessa Premier League, hanno i propri lati oscuri: dal punto di vista tecnico e tattico, le società di Serie A stanno dimostrando di possedere gli strumenti per essere competitive – anche se non ancora vincenti – in campo internazionale, e per offrire uno spettacolo di buon livello praticamente a ogni partita. E forse, per la prima volta nella storia, questa adattabilità, questa sapienza puramente calcistica, sta dando vita a dei modelli innovativi anche per le società, come se il lavoro fatto sul campo – dagli allenatori, dai giocatori – stesse ispirando i dirigenti nella costruzione di progetti in grado di guardare al futuro.
Da almeno cinque anni, il laboratorio tattico della Serie A sta vivendo una profonda evoluzione, dopo il ristagno di inizio millennio. E se questa trasformazione, almeno inizialmente, era legata alla necessità di «compensare il gap economico con altre realtà europee, perché le idee costano meno dei grandi giocatori» (questa frase è tratta da un articolo del Guardian pubblicato nel 2015, all’indomani degli exploit di Juventus, Fiorentina e Napoli nelle coppe europee), ora siamo entrati nella fase successiva: per la stragrande maggioranza delle squadre di Serie A, gli atleti più forti sono ancora inaccessibili sul mercato, ma nel frattempo è sedimentato il concetto per cui si possono migliorare i risultati passando, anzi partendo da idee tattiche innovative, da progetti di gioco spalmati su più anni che influenzano anche il reclutamento dei giocatori; nello stesso frangente, alcuni club hanno migliorato la propria condizione economica e/o il proprio status – Juve e Inter su tutti, ma anche l’Atalanta, la Lazio, il Sassuolo, e ora sembra essere giunto il momento del Milan – e così hanno stimolato una crescita organica, quindi inevitabilmente diffusa, collettiva.
Oggi non è facile programmare un campionato di Serie A, e nemmeno la semplice sopravvivenza è un obiettivo che può prescindere dall’individuazione di un preciso percorso tecnico e tattico. Gli esempi negativi più evidenti, almeno in questa stagione, sono quelli della Fiorentina e del Parma: Commisso ha investito poco meno di 90 milioni di euro in tre sessioni di mercato, il ds viola Daniele Pradé ha acquistato 25 giocatori, alcuni anche di alto livello (Ribery, Bonaventura, Callejón, Koaume), eppure forse non può più bastare accumulare giocatori, non a caso Prandelli è il terzo allenatore chiamato a mettere insieme i pezzi del puzzle, un’impresa che sembra tutt’altro che semplice; a Parma, invece, il nuovo presidente Krause ha deciso di richiamare D’Aversa dopo il fallimento del progetto-Liverani, evidentemente l’ex tecnico del Lecce predicava e praticava un gioco non aderente alle caratteristiche dei giocatori in organico, e così è stato necessario tornare indietro. Anche il Torino sta pagando un prezzo altissimo, in termini di punti e di tranquillità in classifica, per un cambio di allenatore che forse è stato un po’ avventato, nel senso che il passaggio da Mazzarri/Longo a Giampaolo non è stato accompagnato da un mercato in grado di assecondare le necessità del nuovo tecnico. Di contro, l’Atalanta di Gasperini, il Sassuolo di De Zerbi, il Verona di Juric, il Benevento di Inzaghi e lo Spezia di Italiano mostrano come la stabilità, la capacità di costruire una rosa convergente, tra approccio tattico e qualità dei giocatori selezionati, possano portare a grandi risultati. A tutti i livelli.
Eppure, proprio Fiorentina e Parma sono state protagoniste di due delle gare più sorprendenti nella prima metà di questo campionato: i viola hanno vinto 3-0 a Torino contro la Juventus, gli emiliani hanno costretto l’Inter al 2-2 nella gara del 31 ottobre giocata a San Siro. E non si tratta di casi isolati: anche il Milan capolista ha lasciato punti nelle gare contro Parma, Genoa e Verona; la Juve ha pareggiato contro Verona, Crotone e Benevento; l’Inter è stata battuta dalla Sampdoria; il Napoli ha perso allo stadio Maradona contro lo Spezia e contro il Sassuolo.
Certo, rispetto agli ultimi anni c’è la sensazione che la competitività sia maggiore anche perché la Juventus non ha preso la testa della classifica fin dalla prima giornata – dal 2011/12 a oggi, i bianconeri sono stati campioni d’inverno in sei campionati su nove, e nelle altre tre stagioni erano a pochissimi punti dalla vetta. Anche le scelte della dirigenza juventina e l’andamento della squadra di Pirlo, però, confermano la tendenza in atto nel nostro campionato: dopo l’addio di Allegri e l’esito parzialmente negativo dell’esperimento-Sarri, Agnelli e Nedved hanno deciso di rilanciare, di avviare un nuovo progetto fondato sulla costruzione di un’identità tattica nuova e ambiziosa. Il processo di adattamento della rosa a questa nuova èra non è stato semplice e non può dirsi ancora pienamente concluso, in avvio di stagione la Juventus ha “sacrificato” alcune certezze, quindi, inevitabilmente, alcune partite, per portare avanti questa rivoluzione. Ma il punto è proprio questo: i bianconeri, come altre squadre di Serie A, hanno deciso di creare le condizioni per vincere meglio domani, piuttosto che per farlo oggi e poi in futuro si vedrà. E non si tratta solo di un percorso tecnico, ma anche culturale: l’acquisto di giocatori giovani (McKennie e Kulusevski un anno dopo De Ligt e Demiral) e il loro inserimento in un certo sistema di gioco, accanto ai campioni che prima o poi dovranno per forza lasciare Torino per motivi anagrafici, garantisce continuità e pure un certo risparmio.
È evidente che la nuova aria che si respira in Serie A non sia il semplice frutto di una virata generazionale verso un calcio d’attacco e/o meno tattico. O meglio: il gioco moderno ha una vocazione più offensiva, e questa trasformazione ha contagiato anche il calcio italiano – infatti la media gol in Serie A è cresciuta tantissimo dal 1997/98 (1,3 reti per match) a oggi (3,16 reti per match nell’edizione in corso). Ma il punto è che ora le squadre di Serie A rifiutano l’idea per cui l’identità di gioco possa o debba essere considerata una merce, un valore da svendere pur di accumulare punti in classifica, per cui l’adattamento agli avversari è l’unico modo per poter raggiungere gli obiettivi.
Il senso di questa trasformazione è dunque più ampio: in Serie A, oggi, praticamente tutte le società scelgono allenatori che amano “firmare” il gioco delle proprie squadre, che non rifiutano la battaglia tattica che si combatte in ogni partita, per tutta la partita, piuttosto l’affrontano partendo da idee e meccanismi fissi, o quantomeno meno mutevoli rispetto al passato. È per questo che oggi il Crotone o lo Spezia provano a costruire il gioco da dietro esattamente come fanno il Napoli o la Roma, anche nelle partite contro il Napoli e la Roma. È per questo che il Bologna di Mihajlovic o la Sampdoria di Ranieri, che pure praticano un calcio meno ricercato in fase offensiva, non rinunciano mai al pressing intensivo nella metà campo degli avversari.
Questa varietà tattica, così come la conseguente nascita di modelli manageriali sempre più avanzati, hanno aumentato la qualità diffusa della Serie A e l’hanno resa un campionato accattivante anche al confronto con gli altri tornei europei. La Premier è la lega più ricca, quella con la confezione migliore e con i giocatori più forti e gli allenatori più riconoscibili, ma la saturazione economica ha anche dei lati negativi, infatti finisce per limitare gli esperimenti tattici e lo spazio per i giovani (in Serie A, sono stati 16 i giocatori under 23 a superare i 1000 minuti di gioco nella stagione 2019/20, mentre in Premier League sono stati 9); in Germania e in Spagna le scuole locali per allenatori e giocatori puntano da anni sugli stessi concetti, e allora forse c’è una maggiore omologazione tattica, una condizione che rende tutte le partite piuttosto simili tra loro; la Ligue 1 è un torneo troppo condizionato dal mercato perché possano svilupparsi progetti pluriennali oltre Psg, Monaco e Marsiglia.
Anche la Serie A ha i suoi problemi, ma dal punto di vista del gioco è una lega che, anche all’estero, offre una percezione di crescita e di intrattenimento, soprattutto rispetto alla reputazione del passato: secondo Espn, l’ultima edizione del campionato è stata «la più divertente da seguire, pure rispetto alla Premier League»; per il quotidiano spagnolo El País, la Serie A «sta vivendo un’ondata di trasformazioni calcistiche volte a produrre un gioco più sofisticato, più offensivo, così da recuperare due decenni perduti, attirare nuovi tifosi e aumentare le entrate dei diritti televisivi», ed è un tentativo che sta funzionando, infatti il campionato italiano «sta guidando la nuova rivoluzione del gol, le squadre di Serie A stanno sfidando la loro stessa tradizione, segnando tantissimi gol»; alla vigilia di questa stagione, So Foot si chiedeva «se è iniziata davvero una nuova era, se finalmente le squadre di Serie A stanno iniziando a porsi le domande giuste, se stanno sacrificando l’ossessione italiana per i risultati, e si stanno facendo sedurre da una tentazione: piacere attraverso il gioco». Si trattava di una domanda retorica, anche un po’ imbevuta di luoghi comuni, ma la risposta è sì. È proprio questa la notizia, anche se facciamo fatica a rendercene conto, o forse ad accettarlo.