Tutti vogliono bene a Claudio Ranieri

Ha allenato tutte squadre rivali, odiatissime, ma è ricordato con affetto ovunque. Merito di una filosofia di vita, più che di calcio?

In un pezzo pubblicato su The Player’s Tribune nel luglio del 2017, Claudio Ranieri dice di voler parlare di felicità perché nel calcio di infelicità ce n’è già troppa. Ha ragione, il discorso sul calcio è spesso un discorso sull’infelicità, sulle storture, sulle mancanze, sulle disfunzioni, sulle contrapposizioni: una parte fondamentale della felicità di uno è l’infelicità dell’altro, la sconfitta dell’avversario è l’ingrediente principale della vittoria. Non è un caso che a parlare di felicità nel calcio sia uno come Ranieri, ormai venerabile maestro capace di raccontare ogni dimensione, momento, aspetto di una vita passata nel calcio. Compresi quegli intervalli di felicità, sempre più brevi, sempre più rari, sempre più coperti dall’isteria e dal chiacchiericcio.

Forse la felicità calcistica sta nel decidere, per sé, da sé, cosa conta e cosa no, cosa conservare e cosa buttare, cosa esporre in vetrina e cosa chiudere nello sgabuzzino. Magari la felicità calcistica sta nell’aver allenato il Napoli, la Fiorentina, il Chelsea, la Juventus, la Roma, l’Inter, Careca, Batistuta, Lampard, Del Piero, Totti, Zanetti, e scegliere come personale pietra di paragone il Catanzaro, quello che va dal 1974 al 1982, quello di Di Marzio in panchina, in campo Palanca e Silipo, Ranieri con la fascia di capitano al braccio. «Capisco non sia un grande esempio, meglio Guardiola. Ma quella era una squadra come questa, un gruppo di amici che viveva insieme», precisò Ranieri ai giornalisti di mezzo mondo, curiosi di sapere a quale squadra del suo passato si potesse paragonare il Leicester prossimo campione d’Inghilterra. Avesse potuto avrebbe tirato fuori l’album con le fotografie dell’amicizia con i “ragazzi del ’74”: qui sono a un matrimonio con Vichi, Banelli, Silipo, Pellizzaro, Palanca, Spelta e Braca, in questa siamo sul mio yatch a mangiare il gelato, quella è la grigliata a casa mia a Castelnuovo Berardenga, è vicino Siena, sapete. 

Forse la felicità calcistica sta nella gentilezza di lasciare agli altri l’idea che si son fatti di te. Ranieri l’uomo buono, la persona gentile, l’allenatore gentiluomo, il signore all’antica, il vecchio con un paio di “coppette” in bacheca dopo vent’anni di carriera, l’emigrante italiano capace solo di good morning e good afternoon alla fine di quattro anni londinesi. Ranieri l’eterno secondo, quello giusto quando si tratta di salvare il salvabile prima che sia troppo tardi, quello buono per mettere le fondamenta sulle quali altri costruiranno una casa lussuosa. Ranieri il solito italiano fissato con la tattica, il tinkerman con l’ossessione del turnover e con la compulsione di cambiare la formazione.

Magari la felicità calcistica è la soddisfazione di vedere gli altri costretti a cambiare l’idea che si son fatti di te. È vincere il campionato più competitivo, più seguito, più ricco del mondo con una squadra che appena un anno prima si era salvata solo grazie al caratteraccio di Nigel Pearson. È raggiungere il picco della carriera da allenatore nel Paese che ha fatto dell’allenatore qualcosa di più dell’uomo col fischietto in bocca, che sistema i conetti durante l’allenamento, che disegna linee sulla lavagnetta tattica. È trionfare nel campionato in cui gli allenatori si chiamano manager, un pantheon di uomini della provvidenza che tiene assieme Chapman e Mourinho, Clough e Ferguson, Busby e Wenger, Shankly e Revie. È battere il pronostico nel Paese dei bookmaker: all’inizio della stagione 2016/17, per ogni sterlina scommessa sul Leicester campione se ne vincevano cinquemila. È dimostrare sufficiente dimestichezza con l’inglese da scegliersi un nuovo soprannome giocando con l’ortografia: da tinkerman, quello che “aggeggia” in continuazione con moduli e formazioni, a thinkerman, quello che pensa tanto e che spesso decide che è meglio aspettare (il do-nothing tactical master, lo definisce Jonathan Wilson in un pezzo sul Guardian). È costringere Gary Lineker e Harry Redknapp, i colleghi, i pundit e i bookmaker che dicevano “esonerato entro Natale” ad ammettere che avevano torto

Forse la felicità calcistica sta nel fare un dispetto a chi non se lo aspetta, quando meno se lo aspetta. Ranieri non ha il ghigno beffardo di Mourinho, non ha il sorriso entusiasta di Klopp, non ha la pensosa sensualità di Guardiola, non ha il broncio minaccioso di Conte, non ha in sé i flussi di coscienza di Spalletti, non ha la fisicità di Simeone (ce lo vedete Ranieri a rivolgersi ai tifosi e fare il gesto de “los huevos” dopo un gol?). Non ha nessuno dei tratti che oggi rendono riconoscibile un allenatore, che ne fanno un protagonista dello spettacolo tanto quanto i calciatori, talvolta più dei calciatori: niente smorfie e niente tic, nessuna ideologia da difendere e diffondere, va bene il caro, vecchio 4-4-2, tutti dietro compatti, recuperiamo il pallone e poi ripartiamo veloci, fidatevi di me che sono quello che ha portato la zona alla Vigor Lamezia. «Datemi sempre tutto quello che avete da dare e in cambio io vi spiegherò un po’ di calcio», propose alle Foxes durante il primo allenamento. Da Ranieri non ci si aspetta la battuta brillante, la frecciatina sagace, il litigio improvviso, lo sfogo irrefrenabile, l’esultanza esagerata, l’eccesso in un senso o nell’altro, in questa o quella situazione: per richiamare i giocatori assonnati all’inizio degli allenamenti mattutini usava e usa quel «dilly ding, dilly dong» ormai famoso, con lo stesso filo di voce canticchiante col quale glielo abbiamo sentito dire la prima volta in quella conferenza stampa. Magari la felicità calcistica sta «nel mostrare la lingua al prete che dà l’ostia, nel cantare dei salmi un poco stonati». Ranieri porta il travestimento da agnello da così tanto tempo che tutti sembrano essersi dimenticati del lupo che c’è sotto, la mitezza dei modi confusa ormai definitivamente con la mollezza del carattere. Ricordo una conferenza stampa ai tempi del primo ritorno a Roma: l’ultima domanda tocca a un giornalista norvegese, la lingua è l’inglese, l’oggetto è John Arne Riise. Ranieri risponde in inglese, si alza, saluta i giornalisti e si avvia fuori dalla sala stampa. Alle proteste dei giornalisti per la mancata traduzione della risposta data in inglese, Ranieri si ferma, si volta, dice: «Gli ho dato la formazione di domani», e se ne va, con la soddisfazione per la dimostrazione di superiorità linguistica riassunta in un sorriso breve, discreto, sincero, vendicativo.

Forse la felicità calcistica sta nel vedere le redazioni dei quotidiani sportivi sforzarsi di trovare una spiegazione accettabile e comprensibile del concetto di “camaleonte solido”.

Nella sua carriera da allenatore, Claudio Ranieri ha vinto una Coppa Italia e una Supercoppa Italiana, con la Fiorentina, una Supercoppa Europea e una Copa del Rey sulla panchina del Valencia. E poi, ovviamente, è stato il protagonista di un trionfo immenso quanto inaspettato: era lui a guidare il Leicester City campione di Inghilterra nel 2015/16 (Michael Regan/Getty Images)

Forse la felicità calcistica sta in una sconfitta casalinga contro le Far Oer. Se Ranieri non avesse perso quella partita e non fosse stato sollevato dall’incarico di c.t. della Grecia, avrebbe passato la stagione 2015/16 a preparare l’Europeo. «La peggiore scelta possibile in fatto di allenatori», fu il commento con cui il presidente della Federcalcio greca Georgios Sarris lo congedò il 14 novembre 2014. Il 25 luglio del 2015 Ranieri tornò in Inghilterra dopo dieci anni in giro per l’Europa per cominciare la stagione che si sarebbe conclusa con il suo volto dipinto sui muri di Leicester. Magari la felicità calcistica sta in quel miscuglio di necessità, tempismo, (s)fortuna che porta in Inghilterra partendo da Atene e passando per l’Oceano Atlantico del Nord, per diventare l’Otto Rehhagel di qualcun altro. «Sono lo stesso che è stato mandato via dalla Grecia, non sono cambiato, posso solo dire: provateci sempre e credeteci».

Forse la felicità calcistica sta nei soldi che si guadagnano. Ranieri non sarà l’allenatore più ricco, ma chi altro al mondo può dire di aver vinto un campionato dopo aver firmato un contratto che prevedeva un bonus di 100mila sterline per ogni posizione in classifica oltre la 18ª superata a fine stagione?

Forse la felicità calcistica sta in quel che rimane di te dopo che hai lasciato una squadra e una città e un Paese. L’affetto che circonda Ranieri è la somma di tutte le volte in cui si è preso anche le colpe che non erano sue, di tutte le occasioni in cui avrebbe potuto lamentarsi e invece ha taciuto, di tutte le circostanze in cui avrebbe potuto fare la vittima e invece ha accettato di essere considerato il colpevole. Alla Juventus fu accusato di aver preferito Christian Poulsen a Xabi Alonso, al Valencia di aver trasformato il Mestalla in una Little Italy, alla Roma di aver litigato con Totti: «Ma io sono un dipendente. E non vado a lamentarmi in giro. Certe cose rimangono tra me e la società. Non demolisco la credibilità di chi mi dà un lavoro a colpi di interviste o dissociazioni a mezzo stampa. Non l’ho mai fatto», dice in Se vuoi provarci fallo fino in fondo, biografia scritta da Malcom Pagani. La vittoria di Leicester è un indennizzo, un risarcimento per tutte quelle volte che “non l’ha fatto”.

Magari la felicità calcistica sta in quello che succede nel momento peggiore della tua carriera. Dopo il suo esonero dal Leicester («un sogno infranto») in Inghilterra cominciò un dibattito sull’ingratitudine dei calciatori, sull’invadenza di proprietari e dirigenti, sul ridursi del potere dell’allenatore in un calcio abituato al manager autorevole e autoritario. Jonathan Wilson salutò Ranieri facendone il protagonista di uno dei suoi pezzi più belli, colti, arguti: l’allenatore che libera i giocatori dal peso della disciplina porta la squadra a superare i suoi limiti ma dà anche il via al disfacimento della stessa. «Sei libero di muoverti come preferisci, ma devi dare una mano quando perdiamo il possesso. Non ti chiedo altro», queste le parole con le quali Ranieri si era presentato a Jamie Vardy, quello stesso Jamie Vardy che si dice abbia guidato l’ammutinamento dopo la sconfitta contro il Siviglia in Champions League. José Mourinho, quello che aveva definito Ranieri vecchio e perdente e poco fluente nella lingua di Shakespeare, dedicò all’ex-rivale un post su Instagram in cui ricordava che «nessuno può cancellare la storia che hai scritto», men che meno una cultura calcistica scaduta al punto di portare all’esonero l’allenatore campione d’Inghilterra e FIFA Manager of the Year (con Mourinho si ha sempre la sensazione che stia parlando degli altri per parlare di sé).

Forse la migliore definizione di felicità calcistica l’ha data Mike Harle, tifoso del Leicester di Claygate, in una lettera scritta al Guardian per commentare l’esonero di Ranieri: «Ha portato eleganza, colore e vivacità a un gioco ormai vecchio e grigio».