Héctor Bellerín e un nuovo modo di raccontare il calciatore

Unseen Journey non è solo una serie di come si recupera da un grave infortunio, ma anche il ritratto del calciatore moderno, che vive e pensa oltre il campo da gioco.

Voi guardereste una serie in nove puntate su uno che si è rotto il crociato? Beh, io l’ho fatto e pensavo peggio. “Uno” è Héctor Bellerín, quindi non proprio uno qualunque, e non solo perché per più di una volta, anche recentemente, è stato accostato alla Juve durante i giorni caldi del calcio mercato: Bellerín, che è un giovanotto spagnolo praticamente cresciuto nell’Arsenal, un bel difensore di fascia, molto forte e molto veloce, concreto, che nei Gunners ha fatto tutta la trafila sino a indossare anche la fascia di capitano, è quanto più si avvicini all’idea di moderno calciatore conscious.

È vegano, ama la moda (scelto come modello per Louis Vuitton: wow!) e – pensa un po’ – si schiera: contro la legge dell’Alabama che praticamente annullava la possibilità di abortire, ma anche dichiaratamente contro il governo inglese. Prima delle elezioni se ne è uscito con un tweet con hashtag #FuckBoris per cui è venuto giù un casino, e forse è pure per quello che vogliono venderlo: ma questi sono i soliti complottismi all’italiana, perché nessuno qui si potrebbe capacitare di, faccio per dire, un Calabria che twitta #ConteMerda mentre gli inglesi, si sa, son più aperti.

Ma Bellerín è anche e soprattutto, oltre che un difensore forte e un ragazzo con la testa sulle spalle, uno dei bersagli preferiti degli omofobi, che invece – quelli sì – sono coglioni uguali in ogni angolo del mondo: la prolungata assenza di una wag al suo fianco, la passione per la moda e altre stupidaggini (tipo i capelli lunghi: a Ibra però nessuno dice niente, eh) sono stati additati come segni inequivocabili della sua omosessualità. Héctor ha pure dovuto chiudere i suoi social per un periodo, perché tempestato dai coglioni di cui sopra, dovendo però tristemente ammettere che per un calciatore di oggi è praticamente impossibile fare coming out in Premier League: «Il problema è che le persone hanno un’idea di come dovrebbe essere un calciatore, come dovrebbe comportarsi, di cosa dovrebbe parlare».

Insomma, Bellerín è uno che sta simpatico, e per questo dispiace che si sia sfasciato un ginocchio cascando da solo in una partita contro il Chelsea un paio di anni fa. Lo dico perché questa serie, questo Unseen Journey che si può vedere sui canali Facebook e Youtube del calciatore (durata tra i 18 e i 23 minuti a episodio), racconta proprio quello: il regista Charles Hoare l’ha seguito per 18 mesi e ne ha raccontato ogni aspetto, senza risparmiare nulla, anzi.

In primo piano ci sono proprio le difficoltà fisiche di Héctor e anche quelle mentali, aspetto abbastanza inedito nel genere, che ci ha abituato alle solite agiografie da “ringrazio molto il mister e i miei compagni di squadra”. Anzi, lui te lo spiega proprio subito qual è il senso dell’operazione: «Is to take you guys through the actual emotional journeyand the things that, you know, we go through when we get this kind of injuries». Al you guys e soprattutto all’emotional journey ero quasi tentato di mollare, ma poi Héctor ha preso a starmi subito simpatico perché più guardavo e più dicevo “mannaggia la sfiga che hai ragazzo mio, però forza!”. Nel documentario lui si butta giù, ti fanno pure vedere la sala operatoria: insomma, ti prendi di lui che torna a casa dai suoi, a Barcellona, a farsi operare, e poi ce la mette tutta anche se mentalmente fatica («Come posso impiegare il mio tempo libero?» si chiede Héctor, non sapendo che da lì a un anno saremmo stati chiusi in casa per la pandemia e lo stesso problema lo avremmo avuto tutti). Alla fine, se le cose stanno così, giustifichi un po’ anche Zaniolo: se rompersi un ginocchio per un calciatore è così devastante, ti credo che il minimo che ti può capitare è fare casini con le tipe su Instagram.

Héctor invece no, o comunque nel documentario non si vede: si vede invece la fatica di riavvicinarsi prima al campo di allenamento e poi anche allo stadio, la solitudine, la voglia di fare altro, per esempio delle foto un po’ hipster che prede a scattare e che a lui piacciono tanto, e persino lo stilista, suo grande sogno.

Il documentario comunque è fatto bene, come va oggi, con buoni passaggi di montaggio: parlano i compagni di squadra, il medico che lo rimette a posto, l’amico del cuore, e tutto si intreccia a stories che Héctor si fa da solo, a video artigianali. Certo, c’è anche il calcio: il giorno del rientro il mister gli annuncia che se la partita si metterà bene gli farà giocare un pezzo del secondo tempo, lui non se lo aspetta e invece entra, fa pure un assist e alla fine vincono cinque a zero, cosa vuoi di più. O ci sono anche immagini inedite della finale in FA Cup: insomma, non è proprio solo un bollettino medico o un piano sequenza introspettivo. La novità però è proprio lì, nell’aspetto self confident, negli smadonnamenti all’ospedale e nella fatica di riprendere a camminare, che va da sé, si portano dietro mille pensieri oscuri, non proprio quello che succede qui (dove i siti esplodono perché ad Higuaín piacciono le zozze, e vabbè). Insomma, alla fine questo Unseen Journey te lo guardi, ne apprezzi l’idea, ma soprattutto apprezzi un ragazzo di 26 anni che sa giocare (bene) a pallone e non solo quello.