Non lo sapevano, nel 1954. L’Europa era solo geografica, non erano ancora passati dieci anni da una guerra che quella geografia aveva prima cambiato, poi risistemato, al prezzo di milioni di vite. Non c’era ancora un sentimento, comune, se non quello del desiderio di normalità dopo l’odio. Il calcio era rimasto fermo, al contrario della politica. Eppure fu la prima cosa che diede forma all’Europa. Ciò che non sapevano i fondatori dell’Uefa è che sette decenni dopo ci sarebbe stato un mercato unico, un parlamento comune, un governo comune, per larga parte anche una moneta comune, ma che la più alta forma di integrazione europea sarebbe stata proprio il calcio. L’Europa unita del calcio, ecco. Quella che mise le basi nel ’54 e che cominciò a diventare qualcosa nel ’55 quando nacque la Coppa dei Campioni. Oggi quell’Europa ha le stesse caratteristiche di quella politica, con una differenza enorme: domina il mondo. Bruxelles fa fatica, schiacciata tra Stati Uniti, Cina, Russia, con la Gran Bretagna che l’ha lasciata, con molti movimenti politici domestici in molti Paesi che la identificano come il problema. La crisi della pandemia del virus Sars-Cov2 la sta riscattando, sta facendo nascere una terza via, né americana, né cinese, ma appunto europea alla gestione delle crisi, ma è una via stretta, piena di ostacoli, di possibili buche.
Il calcio no: il calcio percorre un’autostrada a corsia multipla, trainando dall’Europa il resto del mondo. I 12 titoli mondiali vinti dai Paesi europei, contro i 9 del continente americano, raccontano solo in parte la rilevanza del calcio europeo nel pianeta. Soprattutto, però, non raccontano che cosa in questi 65 anni è cambiato, che ha trasformato la legittima e ancora esistente rivalità in un ecosistema che, al di fuori di ciò che accade in campo, funziona. Perché nel corso dei decenni i principali mercati del calcio europeo si sono alternati nella leadership di campionati e dunque di club, ma la competizione è servita a cementare un sentimento di appartenenza europea che ha fatto nascere e sviluppato idee che la politica non ha mai neanche immaginato di raggiungere: il grande dibattito su una super competizione europea, che si chiami Superlega o che sia una nuova formula di Champions, è lì. Un progetto che prima o poi troverà sbocco.
Nel frattempo la Champions svolge quel ruolo unificante che passa attraverso la voglia di vincere il trofeo che rende i più forti d’Europa e di trarne profitto a livello economico. La leva della trasformazione delle competizioni europee in qualcosa che desse oltre al prestigio anche risorse economiche ha rafforzato il senso di comunità, ha reso interessante l’idea di appartenenza anche ai club che la Champions (o anche l’Europa League pensano di non poterla vincere mai. Il calcio europeo si è brandizzato sotto le stelle della sua competizione più importante, ha attratto sponsor e pubblico globale. In molti campionati europei meno rilevanti dei primi cinque (Inghilterra, Spagna, Italia, Germania, Francia) qualificarsi per le coppe conta oggi più che vincere il trofeo domestico. Questo è un salto di qualità sostanzialmente definitivo: i club si preparano sempre di più alla gestione degli impegni europei di quanto facciano per il campionato, in più nascono maglie delle squadre dedicate solo alla Champions, sponsorizzazioni ad hoc, format media. La stagione ruota sempre di più attorno all’idea di extraterritorialità che di territorialità. È l’anti-sovranismo del calcio.
C’è un esempio semplice ed efficace: ognuna delle cinque leghe più importanti, la scorsa primavera, ha discusso al suo interno molto di più di come si dovessero concludere i campionati rispetto a quanto gli stessi club di quei Paesi abbiano fatto quando si è deciso il format delle Final Eight della Champions e dell’Europa League. In più: c’è stato un dubbio se finire o no i campionati (e infatti in Francia non si è più giocata la Ligue 1 2019/20) ma nessuno ha messo in discussione che Champions ed Europa League avrebbero dovuto finire.
L’Uefa, a differenza della Fifa, ha capito che con i club aveva molti più punti di contatto. Lo scioglimento del G14 e la nascita dell’Eca ha messo al centro del progetto europeo le società: oggi tra l’istituzione sovranazionale e l’associazione delle squadre c’è un rapporto di reciproco interesse, di collaborazione, c’è un’idea di crescita del sistema che è ciò che la Fifa non ha capito, ovvero che il calcio delle Nazionali non può essere dominante su quello dei club per due semplici ragioni: 1) sono i club che pagano i calciatori; 2) sono i club che creano la passione dei tifosi. Oggi l’Uefa gestisce la Champions come il suo annuale Europeo per club, mentre l’Europeo per Nazionali arriva ogni quattro anni a suggellare tutto il lavoro fatto. È l’Europeo che si è avvicinato alla Champions: l’esperimento itinerante del torneo 2020 che si terrà nel 2021 è una prova e dimostra ancora una volta quanto il tentativo di creare l’Europa Unita del Calcio sia reale. È vero: non si dovrebbe ripetere, ma per ragioni esogene dallo sport e molto più vicine alla politica.
Le regole imposte dall’Uefa sono rispettate, l’istituzione è rispettata, il suo ruolo operativo è rispettato. A sua volta l’istituzione rispetta e comprende la necessità di un rapporto continuo. Questo ha alimentato un vortice positivo che ha trasformato il calcio in una enorme industria continentale. L’annuale indagine “Annual Review of Football Finance” di Deloitte ha confermato una capacità di allargare il proprio volume d’affari che finora ha resistito alle crisi economiche che si sono abbattute sull’economia globale. Certo, a giugno scorso, non erano quantificate le ricadute dell’emergenza Covid-19, ma lo stesso studio le citava come un passaggio a vuoto temporaneo che il calcio europeo può superare in un tempo relativamente breve. Fino a prima del lockdown, comunque, il mercato europeo del calcio ha generato un record di 28,9 miliardi di euro per la stagione 2018/19, beneficiando di ulteriori 700 milioni distribuiti dalla Uefa per gli introiti delle proprie competizioni.
C’è una doppia velocità: i principali campionati, i cosiddetti “big five”, hanno prodotto proventi per 17 miliardi (in aumento del 9% rispetto all’anno precedente), pari al 60% del totale. In particolare, i 20 club della Premier League, nonostante la Brexit, hanno superato i 5,9 miliardi di introiti. Il massimo campionato d’Oltremanica continua la sua cavalcata e ormai supera del 73% il suo concorrente più vicino, la Liga spagnola. La crescita delle entrate della Premier nel 2018/19 si è tradotta in un lieve peggioramento del rapporto tra salari e ricavi salito dal 59 al 61% (a Uefa fissa un parametro di riferimento al 70). Gli utili operativi, sia pure diminuiti del 5%, nel 2018/19 sono stati pari a 935 milioni, il terzo livello più alto mai registrato.
Ciononostante, i club della Premier hanno registrato una perdita al lordo delle imposte pari a 187 milioni – una contrazione di 670 milioni rispetto all’anno precedente – a causa della diminuzione delle plusvalenze e di maggiori ammortamenti. Dietro la Premier la Liga spagnola con ricavi per 3,4 miliardi e una crescita di oltre 300 milioni (10%) nella stagione 2018/19 ha scavalcato la Bundesliga che si è fermata a quota 3,3 miliardi. Poi la Serie A (2,5 miliardi) e la Ligue 1 (1,9 miliardi). Eppure nonostante la doppia velocità anche le altre leghe stanno beneficiando: Belgio, Paesi Bassi e Austria sono tutte in crescita. Crescono anche la Premier League russa e la turca Süper Lig. Due campionati di Paesi che politicamente non appartengono né all’Ue, né alla dimensione e ai valori del Vecchio Continente, ma che calcisticamente godono dell’essere coinvolti. Perché evidentemente essere europei conviene. E oggi è una bella storia.