Il caso di Jordan Veretout è piuttosto strano: probabilmente è uno dei centrocampisti più completi del campionato italiano, di certo è quello che ha segnato di più – 28 gol in 123 partite – dall’estate del 2017, quando è approdato in Serie A; nonostante tutto, però, si fa fatica ad accordargli lo status di giocatore decisivo che caratterizza la narrazione di giocatori come Luis Alberto, Milinkovic-Savic e Nicolò Barella. Per certi versi il racconto di Veretout è ancora quello in tono minore dell’incompiuto, del talento precoce andato via troppo presto da Nantes, del giocatore che, nell’estate 2015, rifiutò il trasferimento al Leicester – dove era stato appena assunto Claudio Ranieri e ci si apprestava a fare la storia, con il trionfo in Premier League – per passare all’Aston Villa. Lo stesso Aston Villa che poi sarebbe retrocesso al termine di una stagione disastrosa.
Per Veretout l’avventura a Birmingham fu pessima, anche a livello personale, al punto da concludersi dopo appena dodici mesi – tra l’altro con un malinconico prestito al Saint-Etienne. «Quando ero a Nantes», ha raccontato lo stesso Veretout in un’intervista rilasciata lo scorso aprile al sito ufficiale della Roma, «avevo tutta la mia famiglia con me, e dopo in Inghilterra mi sono ritrovato solo con mia moglie e nostra figlia nata da quindici giorni. In quella situazione devi maturare velocemente, oppure rischi di smarrirti. Poi l’Aston Villa ha perso tante partite, e così rientrare a casa ogni volta dopo una sconfitta era pesante. In più a Birmingham il tempo era quasi sempre brutto, mia moglie non si trovava benissimo: è per questo che al termine della stagione ho preferito tornare in Francia, al Saint-Etienne»,
Il discorso su Jordan Veretout non è legato solo alla classica definizione dell’underdog ereditata da queste esperienze, quanto, piuttosto, al perché sia stato e sia ancora costantemente sottovalutato. Certo, magari ci sono stati anche altri momenti sbagliati e incastri sfortunati oltre l’Aston Villa: nella Francia Under 20 campione del Mondo 2013, per esempio, Veretout era probabilmente l’elemento migliore della rosa per tecnica e creatività, solo che la squadra era costruita attorno alla superiorità fisica e psicologica di Pogba e Kondogbia. Da lì in avanti, poi, la sua carriera è stata caratterizzata da una trasformazione progressiva – da trequartista è diventato mezzala di corsa e inserimento, a volte anche regista – e da un ridimensionamento di compiti, funzioni e centralità da parte dei suoi allenatori. Questo cambiamento sembra aver alimentato un’idea stereotipata di Veretout, ovvero quella di un giocatore che sa fare tutto: un’etichetta scomoda, perché di solito chi sa fare tutto non sa fare niente davvero bene.
In realtà la versatilità che ha dovuto imparare gli è tornata molto utile, soprattutto quando ha scelto di trasferirsi in Italia: al suo arrivo alla Fiorentina, sembrava un giocatore dimesso, al punto da dirsi «disposto a imparare da Sánchez e Benassi»; pochi mesi dopo era già cambiato tutto, Veretout era il centro di gravità della squadra viola e aveva avuto un impatto immediato nel campionato italiano, sia in termini numerici – 13 gol segnati gol tra il 2017 e il 2019 – che di presenza dinamica, di coinvolgimento diretto nelle singole fasi della partita. Il passaggio alla Roma ha alimentato la sensazione di completezza e incisività, come dimostrano i sette gol segnati tra Serie A ed Europa League al termine della prima stagione in giallorosso. Adesso sono dieci, una quota che fa di lui il secondo miglior realizzatore nella rosa di Fonseca (dopo Mkhytarian). Più che per i gol, però, a Roma Veretout è diventato un giocatore ancora più completo, che può essere efficace – se non decisivo – sempre, ma che si fa notare anche attraverso l’assenza, proprio come il Michele di Nanni Moretti in Ecce Bombo: non è un calciatore vistoso o appariscente, uno di quelli che ruba l’occhio per un giocata contro-intuitiva come summa dell’espressione di tecnica in velocità, piuttosto è un raffinato ma discreto equilibratore, un elemento in grado di far funzionare il sistema scomparendo all’interno di esso. Allo stesso tempo, però, possiede un’elasticità e un atletismo fuori scala, doti che lo rendono un perfetto centrocampista box-to-box, bravissimo a strappare brutalmente e in verticale, sempre in conduzione – una tendenza accentuata dal lavoro fatto con Pioli e Fonseca, gli allenatori con cui ha condiviso le esperienze alla Fiorentina e poi alla Roma.
La rete segnata al Dall’Ara contro il Bologna, dopo aver aggredito lo spazio aperto dai movimenti di Dzeko e Pellegrini, è la manifestazione di quell’istintività, quell’immediatezza e quell’esplosività che, in tempi recenti, è stata propria solo di giocatori come Vidal e Nainngolan all’apice delle rispettive carriere: «All’inizio pensavo che i grandi giocatori dovessero correre molto. Poi, in un Roma-Fiorentina, Nainggolan mi ha pressato ovunque per tutto il match. Alla fine ho scoperto che aveva corso comunque meno di me: faceva corse intense, ma brevi, mentre io tendevo a fare corse più lunghe che mi stancavano di più. Oggi cerco di posizionarmi bene e pressare al momento giusto» ha dichiarato nel novembre 2019 a France Football.
In ogni caso Veretout ha un agonismo sempre e comunque sotto controllo, parte integrante del bagaglio tecnico di un giocatore abituato a fare tutto alla massima velocità possibile, al limite dell’overdrive – spesso anche oltre. Magari i suoi fondamentali non sono sempre puliti o esteticamente gradevoli, eppure proprio per questo risultano ancor più efficaci nel momento in cui il diretto avversario si ritrova spiazzato dalla sua capacità di recupero e correzione dei piccoli difetti nell’esecuzione del singolo gesto. Non a caso il suo gol più bello con la Roma, quello realizzato contro il Parma lo scorso 8 luglio, nasce da un primo controllo non perfetto sul passaggio di Mkhitaryan, un errore quasi impercettibile che lo costringe ad accorciare il passo e a calciare con un’angolazione del corpo tale da rendere il tiro sostanzialmente imparabile.
Quest’idea di verticalità esasperata, di relativa qualità delle giocate compensate dalla quantità e dal volume delle stesse, è alla base del Veretout “tuttocampista”. Non a caso, la sua dimensione creativa non si concretizza spesso nell’assist – ne ha serviti appena cinque in tre stagioni e mezza in Serie A – o nel passaggio chiave: il centrocampista francese è abituato a far progredire l’azione strappando palla al piede, appoggiandosi al compagno che gli corre accanto incaricato della rifinitura. Dipendesse solo e sempre da Veretout, l’azione ideale sarebbe quella che lo ha portato al gol contro il Cagliari, dove è allo stesso tempo iniziatore e finalizzatore: riapertura su Mkhitaryan dopo la sponda di Dzeko, attacco della profondità contemporaneo al cambio di fronte del gioco, inserimento dal lato debole con i due centrali avversari tagliati fuori dal movimento del centravanti.
Questa visione del gioco adrenalinica e iper-cinetica non deve, però, far dimenticare come Veretout sappia essere anche un giocatore cerebrale, per esempio nei movimenti ad attaccare l’area di rigore durante lunghe fasi di attacco posizionale. Nella gara vinta per 3-0 contro l’Udinese, più che i suoi due gol, sono da apprezzare i movimenti da “centravanti-ombra” in occasione della rete annullata a Pellegrini: mentre Mkhitaryan consolida il possesso sulla sinistra fronteggiando Bonifazi e attirando il raddoppio di Stryger Larsen, il francese taglia blandamente da destra verso sinistra, accelerando solo nel momento in cui Villar riceve fronte porta e allora lui può dettargli il passaggio; a quel punto, ricevuto il pallone, Veretout offre a Pellegrini un pallone che deve solo essere spinto in rete. «Abbiamo deciso di far giocare Veretout più avanti con Cristiante e Villar più arretrati. Era importante per cercare gli spazi e lui è stato decisivo con tanti movimenti in profondità», ha detto Paulo Fonseca al termine della gara.
Probabilmente l’unica cosa che manca a Veretout è riuscire a esprimere la stessa qualità composita nello slot davanti alla difesa, un ruolo che Fonseca gli ha talvolta assegnato e per cui servono un’interpretazione e delle letture più ragionate. E se il Veretout pivote convince fino a un certo punto, soprattutto a causa di alcuni errori in fase di prima costruzione – come quello, clamoroso, contro il Benevento – la possibilità di trasformarlo ulteriormente nell’arma totale sui due lati del campo rende l’esperimento degno di essere proseguito. Del resto Veretout ha imparato a riciclarsi, a trasformarsi: non a caso, poche settimane fa ha detto a So Foot di essere: «d’accordo con Fonseca sul fatto di poter giocare in diversi ruoli del centrocampo, perché il mister mi ha già migliorato e continuerà a farlo». È l’approccio giusto per crescere ancora, per staccarsi di dosso tutte le etichette, per cancellare i pochissimi dubbi che restano sul fatto che Veretout sia uno dei migliori centrocampisti della Serie A, non solo uno dei più completi.