Alex Schwazer e l’ossessione per i colpevoli

La storia del marciatore italiano, medaglia d'oro a Pechino 2008, mostra quanto siamo forcaioli con gli errori altrui, ma indulgenti verso le nostre accuse infondate.

La storia di Alex Schwazer da tempo non è più una storia di sport. Per certi aspetti, è un intrigo internazionale: provette manomesse, test falsati, testimonianze inattendibili, istituzioni ambigue e forze oscure che si muovono seguendo traiettorie contorte per raggiungere obiettivi inconfessabili. Per altri aspetti, è la storia più raccontata e meno capita di questi anni (forse di tutti gli anni, sportivamente parlando): puoi essere sicuro che non commetterai mai un crimine ma non puoi essere sicuro che non sarai accusato di aver commesso un crimine, e nello spazio di questa consapevolezza dovresti estirpare il sospetto e coltivare il dubbio. Making a murderer lo abbiamo visto tutti, no? Steven Avery potrebbe essere chiunque.

Coltivare il dubbio è fastidioso. Lo sforzo richiesto è controintuitivo: accettare come possibile una cosa improbabile, incredibile. L’operazione necessaria è innaturale: scavare vuoti nella pienezza di ciò che è certo, consapevoli che la natura il vuoto non lo accetta. A seguire la storia del processo a Schwazer, la tensione alla certezza si fa fortissima: cosa è più probabile? Che un dopato reo confesso abbia ceduto di nuovo alla tentazione o che le istituzioni dell’atletica internazionale abbiano ordito un complotto ai suoi danni? Certe cose si leggono nei romanzi e si vedono nei film, non succedono al di fuori della fantasia. Schwazer mente perché ha già mentito una volta, Schwazer è colpevole perché lo è già stato in passato: una persona è il momento peggiore della sua vita, la sua decisione più sbagliata, la sua parola più stupida.

Coltivare il dubbio è faticoso. È una scelta morale prima e più che una decisione razionale: i beneficiari del dubbio spesso sono incomprensibili e imperfetti, i precedenti non vanno a loro favore, il passato suggerisce cautela. Nel 2012 Alex Schwazer si presentò davanti a microfoni e telecamere per ammettere di aver usato l’eritropoietina perché voleva essere competitivo come tutti gli altri. Era rosso in volto, le lacrime gli gocciolavano dal mento, gli occhi irritati a furia di passarci sopra le mani per asciugarli. Che debolezza, che tristezza, che miseria: un campione olimpico ridotto alla pubblica confessione (che per tanti altro non è che la meritata umiliazione), un vincitore disposto a tutto pur di rimanere tale. Cosa si aspettava Schwazer in quel momento, con quella decisione? Di togliersi un peso dallo stomaco? Di riprendere il controllo della sua vita? Di cominciare da capo la sua carriera da atleta, una volta pagato il fio? Non gli sarebbe stato concesso, povero illuso convinto che la colpa sia una cosa che passa, un momento nel tempo: il suo tempo si sarebbe fermato lì, lui sarebbe rimasto seduto al tavolo della confessione per sempre, noi gli sarebbe stato concesso di muoversi, di spostarsi.

Schwazer ha fatto cose insensate, persino pericolose, pur di ritrovare il suo posto nel mondo. Avesse negato l’evidenza e manipolato i fatti avrebbe fatto prima, ci sarebbe riuscito meglio: l’unica cosa più insopportabile di un’ammissione di debolezza è una dimostrazione di forza. I deboli devono almeno essere mediocri, i colpevoli devono sforzarsi quantomeno di stare nella media. Schwazer negli anni successivi alla prima squalifica ha dimostrato una forza inquietante, una fastidiosa conferma di certe voci che giravano da sempre su di lui: i suoi limiti non sono i limiti di tutti gli altri esseri umani, nel corpo e nella mente. Ha accettato il dolore come conseguenza inevitabile di una scelta radicale: mai più confessioni, mai più lacrime. Si è allenato per la 50 km di marcia senza usare nemmeno i sali minerali, terrorizzato da uno scherzo della chimica: solo acqua e succo di frutta. Una notte, nel suo appartamento romano, gli venne un ascesso: rifiutò di prendere un antidolorifico e preferì passare la notte in compagnia del dolore. Persino il suo allenatore, Sandro Donati, cercò di convincerlo dell’assurdità della cosa. Non ci riuscì.

Era ne Il fu Mattia Pascal che si diceva che la giustizia non può che essere considerata crudeltà sovrumana una volta che si accetta che errare è umano, che l’uomo sbaglia perché è sbagliato?

Schwazer sapeva che tutto questo era troppo e sperava sarebbe stato abbastanza. Nel 2016 riuscì a riconquistare la maglia della Nazionale, il bentornato glielo diede Gianmarco Tamberi: «Vergogna d’Italia, squalificatelo a vita, la nostra forza è essere puliti! Noi non lo vogliamo in Nazionale». Mi piacerebbe poter dire di non aver preso parte alla sassaiola, ma mentirei: Tamberi scagliò solo la pietra più grossa, ma ricordo che accanto a lui (dietro, in realtà) eravamo in tanti, sicuri nei numeri, tranquilli nelle certezze, pronti a veder confermate le nostre ragioni da quello che sarebbe successo a breve. Mi piace oggi chiedere scusa e pentirmi dell’errore prendendo in prestito le parole di una persona che all’epoca si trovò dall’altra parte del furor di popolo: «Bisogna smetterla, Tamberi è un campione vero, pulito, prezioso per tutta l’atletica. Non ha senso parlare di una frase pronunciata quando il contesto era assolutamente diverso, e di certo non si era a conoscenza di tutte le cose che poi sono emerse nelle indagine per poi entrare nell’ordinanza del gip di Bolzano». Sandro Donati, allenatore di Schwazer, accanto a lui nelle confessioni, nelle punizioni, nelle assoluzioni e nelle riabilitazioni, difende Tamberi dai sassi che ora piovono su quest’ultimo per aver detto quello che dicevano tutti, quando lo dicevano tutti, come lo dicevano tutti.

Donati è importante in questa storia: quando si trattò di decidere da che parte stare, Gianni Mura decise (unico tra i giornalisti, sportivi e non) di stare da quella di Schwazer perché della parola di Donati non si poteva dubitare e la parola di Donati era “innocente”. In questi giorni l’allenatore ha detto che l’assoluzione, questa assoluzione (non ha commesso il fatto), restituisce anche a lui il diritto di stare al mondo, il suo mondo. «Passato per fesso o complice, non sono né l’uno né l’altro», questo il commento di Donati alla sentenza del gip del Tribunale di Bolzano, Walter Pelino. Quarant’anni di carriera da allenatore, di lotta al doping sistemico (perché l’atleta è più vittima che colpevole del doping), di denunce di corruzione nazionale e internazionale (la storia del salto truccato di Giovanni Evangelisti meriterebbe uno spazio che qui, ora, non le si può concedere) ridotte all’alternativa tra fessaggine e complicità. Non c’è storia di rettitudine personale che riesca a resistere a questa convinzione collettiva che non ci sono innocenti ma solo colpevoli che non sono stati scoperti, che chi non ha niente da nascondere non ha nulla da temere, che non ci sono innocenti in galera (e manco sotto processo). Lo sport è una cosa piccola e irrilevante, ma è nelle cose piccole e irrilevanti che si misura la pervasività e l’invadenza di una cultura, la forza e la convinzione degli oppositori. Gianni Mura, già venerabile maestro ai tempi, e Francesco Caielli, giornalista che sulla Provincia di Varese scrisse, il 12 agosto del 2016, che un uomo era stato ucciso e che la fiamma olimpica ormai non dava più calore. Due oppositori. Due.

Chi ha condannato Schwazer è tanto forcaiolo con gli altri quanto assolutorio e indulgente con se stesso. Lo so perché tra quelli che lo hanno condannato ci sono anche io e ora voglio per me quello che non ho voluto concedere a lui perché ero troppo eccitato dall’odore del sangue per ricordarmi le mie opinioni, le mie convinzioni. La colpa va sempre ammessa, quando è degli altri. Il crimine va sempre confessato, quando sono gli altri a perpetrarlo. La pena va sempre scontata, quando sono gli altri a vedersela comminata. I danni vanno sempre risarciti, quando sono gli altri a provocarli. Ora che tutti questi obblighi si sono spostati su di me, voglio contesto, comprensione, clemenza, gentilezza.

Della storia di Alex Schwazer probabilmente non resterà nulla se non una trasposizione thrilleristica degli eventi in un film, in una serie tv, in un libro-inchiesta. Per il momento resta la squalifica fino al 2024, prontamente confermata dalla World Athletics (fu Iaaf): innocente e colpevole, assolto e squalificato allo stesso tempo, l’insistenza di un sistema disposto a farsi paradossale pur di non ammettere l’errore (se non la sconfitta). Nessuna lezione, quindi nessun insegnamento, dunque nessun apprendimento. Se andrà bene ci saranno le scuse pubblicate a pagina 18 per tutto quello che è stato detto non si sa nemmeno perché, non ci si ricorda più manco da chi.