Come la Serie A è tornata un campionato in cui investire

Sette club su venti hanno una proprietà non italiana, dieci anni fa non ce n'era nessuna: il cambiamento è dovuto a un mercato più economico rispetto ad altri Paesi, ma anche a un rinnovato appeal.

L’imprenditore inglese Stephen Julius acquista il Vicenza nel 1997. Si gode una prima stagione esaltante, in cui la sua squadra raggiunge una semifinale di Coppa delle Coppe e regala tante buone sensazioni. Ma da lì in poi l’avventura non mantiene le promesse dell’inizio: i campionati successivi sono un’altalena tra Serie A e Serie B, fino al 2004, quando Julius decide che ne ha abbastanza. Gli investimenti per stare al vertice del calcio italiano sono insostenibili e fare profitto è oltre il concetto di utopia. È la prima esperienza di un proprietario straniero alla guida di un club italiano, ed è una sconfitta.

Fino al 2011 quella parentesi del Vicenza sembrava aver scoraggiato gli investitori stranieri, almeno nella massima serie, e l’acquisto della Roma da parte di Thomas DiBenedetto – proprio in quell’anno – era sembrata ancora un’operazione fuori dal mondo. Sono passati dieci anni e, oggi, sette delle venti squadre di Serie A hanno proprietà o proprietari stranieri. L’ultimo arrivato è Robert Platek, finanziere americano socio della società d’investimento Msd Capital, che ha acquistato lo Spezia in un’operazione da circa 40 milioni di euro. La squadra ligure si unisce a Bologna, Fiorentina, Parma, Roma, Inter e Milan. Guardando nelle serie inferiori si possono trovare altri esempi di club con proprietà non italiane: dal Venezia al Como fino al Catania – che a breve dovrebbe passare nelle mani di Joe Tacopina – e in più ci sono stati i tentativi non proprio riusciti dello Spoleto e della Reggiana.

Per anni il campionato italiano è stato una fortezza inaccessibile agli investitori stranieri, ma oggi il panorama sembra molto più inclusivo. La prima chiave di lettura per capire questa trasformazione guarda alla crescita dei diritti televisivi. C’è un tavolo di discussione ancora aperto per il prossimo triennio e la crisi economica mondiale potrebbe ritoccare le cifre al ribasso. Ma dal 2010 gli investimenti di chi trasmette le partite sono cresciuti in maniera esponenziale: i ricavi dai diritti tv in Serie A sono aumentati del 46% dal 2010, e la gara per il 2018-2021 ha visto un incremento del 16,4% rispetto al triennio precedente. È stata una crescita diffusa in tutta Europa e le altre leghe sono andate anche meglio della Serie A: la Premier League ha registrato un +256% dal 2010; la Liga +176%; la Ligue 1 +94%; la Bundes +340% dal 2012. Ma è significativa la crescita di tutto il movimento calcistico. Michael Long, direttore editoriale di Sports Pro Media, spiega che «la tecnologia sta cambiando il panorama dei media. Adesso non parliamo solo di tv rights, ma più generalmente di media rights. Pensiamo al ruolo di Dazn e Amazon, nuove piattaforme che aumentano e arricchiscono ancora la competizione: gli investitori leggono in questo un potenziale per la crescita e il miglioramento dei loro investimenti, perché è roba che non esisteva dieci anni fa. Come non c’erano i social media, che possono aiutare a creare valore».

Quel mondo che aveva bruciato i progetti di Stephen Julius oggi non esiste più perché è cambiato tantissimo. L’evoluzione del sistema calcio ha diversificato il modello di business dei club – si pensi ai social, agli eSport e alla moda – così come si sono moltiplicate le occasioni per dialogare con i tifosi e monetizzare il loro interesse. In parole più semplici, il calcio permette di generare profitto in molti modi, e questo attira nuovi imprenditori. Così sono entrate nel sistema nuove managerialità, una nuova cultura d’impresa che sta avvicinando il calcio agli altri business, relegando ai margini la figura ormai anacronistica del magnate che spende per la squadra della sua città, quella per cui fa il tifo, o semplicemente quella che gli piace di. Certo, nel caso di una società di calcio oltre al fatturato c’è bisogno di produrre anche un output sportivo, delle prestazioni e dei risultati da conquistare sul campo. Ma neanche questa è una condizione ormai dogmatica: il Manchester United: per anni è stato il club più ricco del mondo, con un fatturato di diverse centinaia di milioni, tutto senza produrre granché sul campo nell’era post-Ferguson. Lo sviluppo dell’industria calcistica, in certi casi, può andare anche oltre un rendimento scadente.

«I club italiani sono molto economici», ci dice Simon Kuper, giornalista del Financial Times, autore del libro Soccernomics, parlando della nouvelle vague di imprenditori che entrano nel calcio scegliendo l’Italia. «Ovviamente c’entra il fatto che gli investitori italiani che prima possedevano i club», prosegue, «sono diventati più poveri per le difficoltà economiche del Paese degli ultimi dieci anni abbondanti. E con quattro posti sicuri in Champions League è sicuramente un buon momento per comprare squadre come Inter, Milan, Roma». Poi c’è chi punta su realtà più piccole, come la Fiorentina, il Parma, lo Spezia, il Bologna, società che non hanno un big market come Roma o Milano a fare da contorno: qui è a rendere appetibile l’investimento è la cifra di spesa iniziale, relativamente bassa, che permette di contenere il rischio. Kuper mette sul piatto della bilancia l’acquisto della Fiorentina da parte di Commisso e quello del Newcastle tentato e poi fallito dal fondo saudita Pif: Commisso ha preso la Fiorentina per 160 milioni di euro, la cifra richiesta per acquistare il club inglese era di circa 340 milioni. Lo stesso Parma è stato acquistato da Krause per 100 milioni. E se le entrate – soprattutto dai diritti tv – di una squadra di Premier League sono decisamente più alte, è evidente che la Serie A oggi rappresenti un’occasione particolarmente ghiotta per un investitore straniero.

L’approdo alla semifinale di Champions League nel 2018 è stato il miglior risultato della Roma da quando è stata rilevata da proprietari americani: il consorzio di investitori che ha acquistato il club nel 2011, guidato prima da DiBenedetto e poi da Pallotta, ha di recente ceduto le quote di maggioranza a Dan Friedkin, imprenditore californiano (Michael Regan/Getty Images)

Fino al 2011, il campionato italiano è stato una fortezza inaccessibile agli investitori stranieri: in quell’anno, l’acquisto della Roma da parte degli americani era sembrata un’operazione fuori dal mondoIn Europa, e in generale nel calcio, ci sono cinque grandi campionati: Premier League, Liga, Serie A, Ligue 1 e Bundesliga. Il campionato tedesco si esclude praticamente da solo dalla possibile colonizzazione straniera per la regola del 50+1: la maggioranza di una società deve necessariamente rimanere ai tifosi-soci, quindi un privato può prendere quote di una squadra fino al 49%. Difficile che investitori dall’estero possano accettare di rimanere subalterni. La Premier League è sicuramente il piatto più ricco, e infatti nel campionato inglese una larghissima fetta dei club (quindici su venti) hanno proprietà o soci di maggioranza stranieri; solo che le cifre di quel mercato lo rendono inarrivabile per moltissimi investitori. Restano in gioco Spagna e Francia. La Ligue 1 è il campionato meno prestigioso dei cinque – le infatti lo stigma classico è quello del «Paris Saint-Germain che vince perché gioca da solo» – e ha un appeal minore per chi guarda il calcio dagli Stati Uniti, dalla Cina o da altri Paesi. Gli investimenti dall’estero ci sono – l’ultima proprietà straniera sbarcata in Francia è quella del Lille, rilevato da un fondo d’investimento lussemburghese – ma finora, non a caso, si stanno concentrando sulla Ligue 2, e probabilmente cresceranno quando si restringerà lo spazio di manovra altrove. In Spagna invece ci sarebbero condizioni economiche molto simili a quelle italiane – non a caso nel 2010 lo sceicco qatariota Al Thani ha acquistato il Málaga. Ma a fare la differenza potrebbe essere l’egemonia inscalfibile, almeno nel medio periodo, di Real Madrid e Barcellona, a cui adesso si è aggiunto anche l’Atlético Madrid: questa è una condizione che riduce tantissimo lo spazio per una qualificazione alle coppe europee, in particolare per la Champions, scoraggiando l’accesso di un investitore medio in un club medio-borghese. Ecco allora che la Serie A è emersa come un mercato particolarmente appetibile.

Poter portare in alto una squadra – quindi valorizzare il proprio investimento – va anche oltre la spesa iniziale di acquisto. «In un calcio italiano ancora relativamente povero, soprattutto se paragonato a quello inglese, un imprenditore può scalare facilmente le classifiche dalla Serie C alla Serie A costruendo la sua squadra con pochi milioni e in pochi anni», spiega Simon Kuper. E anche l’ambizione di ritagliarsi un posto più o meno stabile nelle coppe europee potrebbe non essere poi tanto assurda. Lo si vede anche nei numeri: secondo i dati della Deloitte Money League 2020, 11 delle 30 società con il fatturato più alto del mondo militano in Premier League; sempre nella Top 30, ci sono quattro club italiani, uno in più della Spagna, solo che in Liga giocano le due squadre che generano i maggiori ricavi – e poi c’è l’Atlético Madrid è poco fuori dalla top ten. Sono distanze praticamente incolmabili., che riducono lo spazio per nuovi progetti.

In questa diversa percezione del campionato, ha giocato un ruolo anche il campo. O meglio, il calciomercato, che ha portato in Italia giocatori fortissimi e atleti con una visibilità enorme in tutto il mondo. Il primo nome da fare è ovviamente Cristiano Ronaldo. Ma non c’è solo lui e non c’è solo la Juventus: Romelu Lukaku è uno dei calciatori con maggior seguito, capace di sfondare oltre i confini degli appassionati di calcio; e poi il ritorno di Zlatan Ibrahimovic e Alexis Sánchez, ma anche Eriksen, De Ligt o Diego Godín. Insomma, la nuova appetibilità della Serie A nasce anche da una spinta anche dal basso, dai calciatori che vanno in campo ogni settimana.

Lo Spezia, fondato nel 1906, è alla prima stagione in Serie A della sua storia: nonostante non sia un club di grande blasone del calcio italiano, almeno ai massimi livelli, è stato rilevato da un fondo americano (Paolo Bruno/Getty Images)

I nuovi imprenditori portano in Italia un nuovo modo di intendere il business del calcio, con nuove managerialità e nuove competenze, seguendo percorsi diversi rispetto al passatoIn qualche modo negli ultimi anni deve essere cambiata anche la risposta dell’ambiente del calcio italiano, adesso molto più aperto agli investitori stranieri. «Prima di acquistare il Chelsea, Roman Abramovich avrebbe voluto comprare in Italia. Ma quando capì che all’epoca per un outsider sarebbe stato molto difficile inserirsi in un ambiente mentalmente non pronto, chiuso, scelse di andare in Inghilterra», dice Simon Kuper. Il fascino della Serie A che aveva convinto Abramovich – uno innamorato dell’Italia, ci viene spesso in vacanza – è ancora vivo, forse ha solo bisogno di una spolverata. Dopotutto c’è un’evidenza che racconta la Serie A come un campionato ancora molto attraente per gli spettatori. Nell’elenco dei 50 brand sportivi con la miglior consumer perception del mondo stilato da Sports Pro Media ci sono Juventus, Inter e Milan alle posizioni 18, 20 e 22. Subito dopo, al 24esimo posto c’è proprio la Lega Serie A. Più alto ci sono solo le migliori squadre inglesi, Real Madrid, Barcellona, i Mondiali e la Champions League, tra i brand sportivi. E se la percezione dei consumatori è ancora così elevata, è evidente come gli investitori siano (più) semplice convincersi a spendere in Italia.

Nell’ultimo decennio l’immagine del campionato italiano è solo leggermente sbiadita, probabilmente è stata vicino al suo nadir, e adesso può essere (ri)valorizzata. Lo ha spiegato indirettamente Kyle Krause – nuovo proprietario del Parma – al Financial Times: «La Serie A era il campionato numero uno al mondo. Adesso è al terzo posto, forse al quarto, ma penso che potremmo arrivare di nuovo al secondo». Oggi i problemi della Serie A sono quelli che si ripresentano ogni settimana: stadi vecchi, un’immagine televisiva da perfezionare, un evidente problema di razzismo nelle tifoserie. «Qualche decennio fa la Serie A era il top, mentre il calcio inglese era pessimo, anche pericoloso», dice Simon Kuper, «il vantaggio è che adesso l’Italia sa perfettamente cosa serve per crescere, e può farlo guardando cosa ha fatto l’Inghilterra con la Premier League: basta copiare un modello già esistente per avere un campionato fantastico, con tutta la bellezza del calcio italiano, della sua tradizione e dell’Italia stessa alle sue spalle».

Vanno proprio in questa direzione gli investimenti delle nuove proprietà. Si parla di nuovi stadi, nuove strutture di allenamento, investimenti nel settore giovanile o nelle squadre femminili, o ancora nelle nuove media house e in altri settori prima inesplorati. I nuovi imprenditori portano in Italia un nuovo modo di intendere il business del calcio, con nuove managerialità e nuove competenze, seguendo percorsi diversi rispetto al passato. Ovviamente, come per tutte le cose nuove, le prime fasi possono essere farraginose, come aveva aveva fatto capire Rocco Commisso spiegando le difficoltà nel costruire un nuovo stadio alla sua Fiorentina: «In Italia sia il settore pubblico sia quello privato non riescono a correre: sono troppo condizionati dalla burocrazia. Per stare in alto abbiamo bisogno di infrastrutture. Bisogna avere uno stadio che porti ricavi. Ribadisco le mie tre richieste: costi giusti, controllo totale dell’opera ed essere fast, fast, fast». Sono problemi che, in un modo o nell’altro, rallentano la crescita dell’Italia in tanti altri settori. Il calcio italiano, con le sue recenti trasformazioni e l’appeal di un campionato di grande tradizione, ha l’opportunità di tornare a correre e di tornare in alto grazie agli investimenti e alle conoscenze che arrivano dall’estero. Adesso bisogna fare il possibile per valorizzare quest’occasione, che potrebbe non tornare.