Perché tutti odiano Gasperini?

Fenomenologia dell'antipatia dell'allenatore dell'Atalanta, dalle parole sugli avversari fino ai suoi momenti politici più problematici.

Nella classifica degli allenatori più odiati d’Italia, spesso al primo posto ci trovi Gian Piero Gasperini. Ogni volta dico a me stesso o agli altri che non sono d’accordo: l’antipatia è un modo di fare e non di essere, è una cosa che capita e che non si cerca, una circostanza sfortunata e non una decisione sbagliata. Antipatico magari potrà risultare Antonio Conte, che sembra infastidito dalla realtà circostante anche dopo una vittoria per 3-0 in un derby che vale lo scudetto. Antipatico potrà risultare Simone Inzaghi, che sono sicuro ricordi a memoria tutte le rimesse laterali, i calci d’angolo, i falli a metà campo negati alla Lazio da quando sulla panchina biancoceleste ci si siede lui. Antipatico forse potrebbe pure essere Massimiliano Allegri, disposto a diminuire il valore del suo lavoro pur di sminuire il valore di quello altrui (e di Adani in particolare). O Luciano Spalletti, con quella sua predisposizione a esasperare. Gasperini è diverso: il suo volto non è mai stravolto e la sua voce non è mai alterata, le sue dichiarazioni non sembrano mai improvvisazione data dal momento e dalla circostanza, i suoi bersagli non sembrano mai spuntare dall’emotività ma paiono sempre frutto di attenta pianificazione. A rileggere/riascoltare le cose che dice si ha sempre l’impressione che abbia passato ore e ore a scegliere le parole giuste per far imbestialire chi lo ascolta, come un esperto di coltelli che passa il suo tempo a saggiare lame finché non trova quella che affonda nel modo desiderato.

Gasperini non sembra mai agitato ma non c’è occasione in cui appaia sereno. C’è una tensione perenne in lui, un implicito ribadire, tramite le vibrazioni del corpo, i tremolii della voce, che gli spetterebbe più di quanto non abbia ottenuto, stia ottenendo, otterrà. Non pare mai soddisfatto ma sa di non avere ragione per lamentarsi. Nello spazio sottile che c’è tra l’alta opinione che Gasperini ha di sé (quello che gli spetterebbe) e il riconoscimento della bontà del suo lavoro (quello che ha ottenuto, sta ottenendo e probabilmente otterrà) vengono fuori quelle (auto)analisi che hanno reso le sue interviste post-partita alcune tra le più surreali esperienze che il palinsesto calcistico italiano ha da offrire.

Dopo la vittoria per 4-2 contro il Napoli, Gasperini ha parlato di una direzione di gara “pesantissima”, di una partita che “era una trappola”, di un risultato che lo faceva sentire “come uno che è passato sotto un treno e non si è fatto niente”. Persino un veterano della mixed zone come Massimiliano Nebuloni si è trovato a dover chiedere spiegazioni: «Non sembri di ottimo umore nonostante la vittoria», gli si sente dire a un certo punto, genuinamente sorpreso se non sinceramente interdetto.

Uno dei tratti caratteristici della lingua di Gasperini è la ricchezza di dettagli, paragoni, metafore, accostamenti, immagini che mette in mostra quando si tratta di descrivere una partita vinta o una circostanza lieta (l’arbitraggio è pesantissimo, la partita che è una trappola, l’incidente ferroviario che lascia la vittima illesa). Quando si tratta di descrivere sé e i suoi, insomma. Lingua che si fa bruscamente parca, persino tirchia, finanche ingiusta quando si tratta di raccontare quello che non va, le cose che non funzionano, cioè gli avversari. Del pareggio contro l’Udinese, per esempio, resta un racconto che a stento contempla l’esistenza dei giocatori bianconeri: «A volte è impossibile giocare. Gli avversari sono sempre per terra, urlano come se fossero stati colpiti in chissà quale modo. […] Entrano in campo i massaggiatori, si perde troppo tempo e le squadre come l’Atalanta che producono gioco sono penalizzate». Nel racconto di Gasperini, da una parte (la sua) c’è sempre la forza inarrestabile, dall’altra sempre l’oggetto inamovibile. Non si capisce se la sua frustrazione sia data dal fatto che gli avversari talvolta sono davvero inamovibili o dal dover ammettere che i suoi non sono sempre, comunque, dovunque inarrestabili. Il perfezionista non ha né il tempo né la voglia di riconoscere i meriti dell’ostacolo che lo separa dal suo obiettivo.

Non che basti questo a spiegare lo spesso strato di antipatia che ormai avvolge l’allenatore dell’Atalanta, anche perché la Serie A è una galleria di allenatori-polemisti-rissaioli ricca come nessun’altra; nel campionato del calcio in culo di Baldini a Di Carlo, dei cazzotti di Rossi a Ljajic, di Sarri che insulta Mancini chiamandolo fr***o, delle crisi di nervi a cadenza quindicinale di Spalletti, ci vuole ben altro per entrare nella Top 5 Horror. Il problema di Gasperini sta nella scarsa comprensione (per non dire nel mancato interesse) del contesto, che è poi la forza della sua squadra: l’indifferenza nei confronti di quello che c’è o non c’è attorno, la concentrazione solo sul pezzetto di mondo, di realtà, di tempo che sta dentro il rettangolo di gioco.

In Serie A, prima dell’Atalanta, Gasperini ha guidato Genoa, Inter e Palermo; quella rossoblu è la squadra cui è rimasto più legato, avendola allenata in due periodi diversi, dal 2006 al 2010 e poi dal 2013 al 2016. Il risultato più importante raggiunto con il Genoa è stata la qualificazione all’Europa League nell’annata 2008/09 (Valerio Pennicino/Getty Images)

Gasperini non è mai sopra le righe, non va mai fuori dai gangheri eppure dà sempre l’impressione di essere fuori posto, fuori luogo. D’altronde c’è anche da aspettarselo, c’è pure da capirlo: a un allenatore con una così perfetta capacità di analisi di quello che succede in campo sarebbe troppo chiedere una uguale (o anche solo simile) dote interpretativa di quello che succede attorno al campo, cioè nel mondo. All’avveniristica visione con la quale ha portato l’Atalanta nella élite del calcio italiano ed europeo corrisponde un’opinione sull’attualità spesso di una banalità sorprendente, quindi avvilente. Possibile che l’uomo che ha insegnato a Gosens e Hateboer a muoversi in quella maniera non abbia un’opinione sul razzismo negli stadi più raffinata, più elaborata di quella del signore che al bancone del bar che lascia ditate unte di cornetto sulla copia della Gazzetta dello Sport messa a disposizione dei clienti? «[…] I “buu” […] secondo me non c’entrano nulla col razzismo. Il razzismo è un’altra cosa, quello è più che altro un problema di educazione. Gli ululati sono come le offese, e sapessi quante ne ho sentite – il coro figlio di puttana, quando è andata bene – rivolte ai grandi giocatori. Quante ne hanno sopportate Del Piero o Totti? Io penso che sia un modo, deprecabile, per innervosire il miglior giocatore avversario, esattamente come le offese di cui ti dicevo. Ma come fa ad essere razzista uno che nello stesso momento fa il tifo per Asamoah o nel nostro caso, magari, per Duván Zapata? Il razzismo è un’altra cosa, molto più seria. Ancelotti ha ragione: non è ammissibile, ma il problema non si risolve chiudendo uno stadio o una curva», questo il contributo lasciato da Gasperini in calce alla discussione sugli insulti razzisti subiti da Koulibaly in quel famigerato Inter – Napoli.

Più stringata ma ugualmente ficcante la sua opinione sulla questione meridionale che divide l’Italia dal Risorgimento a oggi: Mirco Moioli, team manager dell’Atalanta, dà del “terrone del cazzo” a un tifoso del Napoli? «Non è un problema mio e nemmeno dell’Atalanta», risolve Gasperini. Come si può accettare un commento di tale bruttezza dall’uomo che ha smontato e rimontato Gomez e Ilicic, regalandoci la bellezza di due carriere migliori nella vecchiaia più che nella gioventù?

Nell’asimmetria che c’è tra l’allenatore e l’opinionista sta l’origine dell’affetto dimezzato che circonda Gasperini: dovremmo amarlo di più, lui lo sa, noi lo sappiamo, eppure qui stiamo e qui rimaniamo, sempre interessati ma mai appassionati. «È bello sapere che tutta l’Italia farà il tifo per noi», disse prima del quarto di finale di Champions League contro il PSG. Una pretesa di unità nazionale così ingenua da sembrare persino sincera, nonostante precedenti dichiarazioni piuttosto precise nel tracciare attorno al Po il confine tra l’Italia che funziona e quella che forse, chissà, potrebbe come non potrebbe: «In Lombardia, siamo sufficientemente organizzati, pur se in difficoltà. Mi chiedo cosa potrebbe accadere a Roma, a Napoli», disse al Corriere dello Sport nel mezzo del primo lockdown. Gasperini l’affetto se lo aspetta, lo pretende, perché la sua vita inizia e finisce nel campo di calcio e nel campo di calcio non c’è una squadra che meriti di sentirsi amata più della sua Atalanta. Purtroppo per lui, “chi capisce solo di calcio non capisce nulla di calcio”.