Uno Slam è l’unica cosa che conta?

Serena Williams è ossessionata dal 24esimo titolo, Federer, Nadal e Djokovic si contendono il record da anni, ma una carriera si valuta solo in base a quel numero?

Nella tremenda e desolante koiné riunita dal web, c’è un’icona a forma (forse non è un caso) di capra. Che in inglese suona goat, e il caso vuole sia acronimo di Greatest Of All Times, il più grande di sempre. È anche per colpa di quell’ignaro quadrupede se Serena Williams, per anni accostata a una pantera che i capri li ha nel menu settimanale, ha abbandonato piangente la conferenza stampa gli Open d’Australia, dopo essersi fatta maltrattare in campo da Naomi Osaka. È molto probabile che non si trattasse né della delusione per aver mancato l’occasione di giocare un’altra finale a Melbourne, né della presa di coscienza di non essere più in grado di dominare la concorrenza.

Perché disperarsi? Serena ha 39 anni e mezzo. Ha vinto tanto, tutto. Quasi troppo: 73 tornei, 23 dei quali appartengono al sacro circolo degli Slam. Ha iniziato a vincere nel secolo scorso, da ragazzina portata via dal ghetto di Compton ha accumulato ricchezze per le prossime generazioni. Ha imposto nuovi standard di violenza al tennis femminile, ha trascorso più di trecento settimane in vetta al ranking. Lo dominava anche dalle retrovie: tornava al tennis dopo mesi di pausa per infortunio e, come in Australia nel 2007, da numero 81 al mondo, sfilettava i colpi delle sue cosiddette avversarie con superiorità sconcertante.

Sì: se proprio vogliamo cercare ciò che la separa dalla perfezione, le manca la soddisfazione che finora è appartenuta solo a Don Budge (1938), Rod Laver (1962 e 1969), Maureen Connolly (1953), Margaret Court (1970) e Steffi Graf (1988): completare lo Slam. Vincere tutti e quattro i tornei più importanti del mondo nello stesso anno solare. Per due volte, però, Williams si è inventata il cosiddetto Serena Slam: deteneva in contemporanea i quattro titoli, sebbene conquistati in due anni consecutivi. Proprio come ha fatto Novak Djokovic, tra il 2015 e il 2016. E se non ci è riuscita, a centrare il Grande Slam, è stato soprattutto per colpa di Roberta Vinci, che l’ha fatta impazzire di cambi di ritmo e di aggressioni a rete in una clamorosa semifinale degli Us Open nel 2015. Non ci sono, insomma, ragioni per cui Serena non si possa ritirare senza la minima remora. Non è Ivan Lendl, cui mancava dannatamente quel titolo a Wimbledon e non si rassegnava, anno dopo anno, al fallimento. Non le manca nulla, ha ottenuto l’ottenibile e in sovrabbondanza.

Solo che, uno giorno, la stampa ha cominciato a costruirle un avversario impossibile da sfidare nel rettangolo di gioco. Perché a luglio compirà 80 anni e si chiama proprio Margaret Smith, poi signora Court. Una campionessa australiana che ha vinto 24 titoli dello Slam tra il 1960 e il 1973. Quasi la metà, raccolti in edizioni degli Open d’Australia che, ai tempi, somigliavano ai campionati nazionali assoluti. Serena ha artigliato l’ultimo Slam, da donna incinta di poche settimane, agli Australian Open 2017. Il numero 23. Da quel giorno, è fiorita una farlocca competizione generazionale, cui si è iniziato a legare – in modo del tutto arbitrario – un concetto: chi è la più grande di tutti i tempi? Serena Williams o Margaret Court, che ha vinto un grande torneo in più? E come possiamo, noi, dire che Serena è più forte di una donna che ha vinto uno Slam in più?

Serena Williams ha vinto il primo dei suoi 23 titoli del Grande Slam nel 1999, agli US Open; l’ultimo trionfo è arrivato a Melbourne nel 2017 (Photo by Clive Brunskill/Getty Images)

Da che è mamma, ci ha riprovato due volte a Wimbledon, due agli Us Open, ma niente da fare. Il ventiquattresimo titolo non è mai arrivato e c’è il sospetto che, se Osaka, Halep, Andreescu, Barty, Pliskova, Muguruza e forse qualche altra non si metteranno d’accordo per sgambettarsi a vicenda, Serena non riuscirà più a vincere sette partite di fila, con difficoltà crescenti, in un grande evento. «Ma non ne è ossessionata come voi della stampa», ha soggiunto il suo coach Patrick Mouratoglou. «Sappiamo che Margaret ha vinto tanti Slam prima dell’era Open: era un altro sport, non c’era il professionismo». Certo, loro lo sanno. Qualcun altro, in giro per il mondo, lo sa. Ma il popolo, no. I giornalisti si sono resi complici di un ritornello facile da cucinare e da vendere, che accontenta la sete di sfide e di misurazione di concetti impalpabili. E ha finito con il contaminare il dibattito sulla grandezza di uno sportivo, imponendo un metro di giudizio tanto più opinabile, parziale e massimalista quanto più viene offerto privo di un qualsivoglia contesto o ragionamento a corredo. E cioè, che un tennista è grande tanto quanto è lunga la sua collezione di Slam, punto e stop.

La tesi origina da una considerazione effettivamente condivisa da chiunque: i tornei che contano veramente sono quei quattro, e solo loro: Australia, Parigi, Londra, New York. Più ne vinci, più ti guadagni spazio nella solleticante classifica dei migliori di sempre. Se non ne hai mai vinto uno, come un Marcelo Rios, puoi essere stato un fenomeno, puoi aver detenuto la prima posizione mondiale, puoi aver giocato il tennis migliore della storia. Ma rimarrai un campione in penombra. Tra gli uomini, la gazzarra si è accesa quando non uno, ma tre fuoriclasse che trascendono le epoche hanno sbriciolato il record di 14 Slam di Pete Sampras, ritenuto a inizio Duemila intoccabile per chissà quante generazioni a venire. A forza di propinarla, però, la classifica degli Slam è diventata non una cosa che conta, piuttosto la cosa che conta. Vincerne uno in più dell’altro.

Per anni, gli estimatori di Federer hanno proposto l’argomento numerico degli Slam per sbaragliare la questione del Goat. Quando Rafa Nadal lo ha raggiunto a quota 20 Slam, allo scorso Roland Garros, Rafa stesso non si è schermito: «Ho a cuore la storia di questo sport», ha risposto a chi gli domandava sulla gara a tre per la supremazia. Come se, fino al giorno in cui poteva contarne soltanto 19, nessuno potesse azzardarsi a sostenere che Rafa fosse già ampiamente paragonabile a Federer, perché mancava un titolo. Qualche settimana fa, Novak Djokovic ha acciuffato il nono trofeo australiano, ampliando la sua collezione a 18. Ha dichiarato di puntare a «fare la storia», con i titoli Slam. Messa così, nuda e cruda, è una sfida che stimola e sembra avere contagiato i giocatori stessi. «Djokovic a due lunghezze dai rivali», «Caccia al record»: ormai, ogni Slam porta con sé la domanda delle domande. Chi smetterà di giocare avendone vinti più degli altri potrà, questo è l’assunto, dichiararsi il più grande.

Ma se non ha senso paragonare le mele alle pere, Margaret Court che giocava con la racchetta di legno e contro le amiche del circolo nel 1960 a Serena che sfidava Davenport, Mauresmo, Hingis e poi altre generazioni di campionesse che passavano mentre lei restava lì a sculacciarle, non sarà altrettanto insensato agganciare un giudizio così complesso come la grandezza di un atleta a un unico parametro nudo e crudo, per quanto prestigioso? Prendiamo Andy Murray e Stan Wawrinka: hanno vinto lo stesso numero di Slam, tre. Solo che lo scozzese ha perso anche otto finali. Lo svizzero, abituato a perdere spesso e volentieri nei primi turni quando si alzava con la luna storta, una sola.

Djokovic ha vinto per nove volte gli Australiano Open, record assoluto; poi ha trionfato una volta al Roland Garros, tre volte agli US Open e per cinque volte a Wimbledon, l’ultima nel 2019 (Photo by Clive Brunskill/Getty Images)

Ci sarà differenza, tra il perdere una finale a Wimbledon e farsi battere all’esordio dalla wild card locale, oppure non giocare proprio il torneo? A seguire i dibatitti, sembra di no. Paul Annacone, ex coach di Sampras e Federer, ha proposto a chi scrive – trovandomi d’accordo – una categoria diversa, rispetto al Goat: il Maoat. Il Most Accomplished, il più vincente. Non il più forte. Sembra avere un senso. «Una volta, Sampras mi disse che il suo successo più grande non erano stati i 14 Slam, o i sette Wimbledon, ma i sei anni di fila come numero uno al mondo di fine anno. Sosteneva che riuscirci per tante stagioni consecutive era stato durissimo, anche perché di posti in vetta ce n’è uno solo mentre, di Slam, se ne giocano quattro all’anno».

Gli Slam sono i templi del tennis, è indiscutibile. Ma il tennis inizia a gennaio e termina con il Master. In mezzo, ci sono i tornei Master 1000. Esistono gli scontri diretti. Dei 20 Slam di Nadal, 13 sono arrivati dalla terra del Bois de Boulogne: per un verso è l’impresa tennistica più grande della storia, per un altro è una concentrazione sbilanciata che può portare a dubitare della superiorità universale di un tennista su tutti gli altri. E se si decidesse di pesare i titoli, al di là del conteggio brado, si potrebbe argomentare che uno Slam vinto a spese di Baghdatis o Fernando Gonzalez può essere stato più leggero di uno conquistato dovendo abbattere uno o più rivali dell’ultima generazione di fenomeni.

Mi piace richiamare ciò che mi è stato detto dal coach di Federer, Ivan Ljubicic: «Nello sport, esiste un concetto che in inglese ha una parola: legacy. Eredità. Io ho tutto il rispetto del mondo per un fuoriclasse come Sampras: però ha sempre detto, molto chiaramente, che gli interessava solo vincere. Pete ha vinto, ha smesso, è scomparso. Roger non è solo le sue vittorie ma come gioca, come vive il tennis, come si è comportato, cosa rappresenta per la gente». Difficile rendere l’idea con un emoji, no?