È utile conoscere il punto di vista degli arbitri?

Il nuovo corso Aia, con Trentalange presidente, ha inaugurato la stagione della "trasparenza" arbitrale: un passo importante, ma può bastare?

T-shirt bianca e accento veneto, ecco la consistenza di cui sono fatti gli arbitri – o almeno, di cui è fatto il signor Daniele Orsato, fischietto della sezione di Schio, materializzatosi sui canali Rai in un altrimenti ordinario pomeriggio domenicale. Un’epifania annunciata, eppure, nel suo piccolo, storica: un arbitro che risponde a domande e curiosità dei giornalisti di Novantesimo minuto, presta il suo punto di vista, analizza gli aspetti del suo lavoro e fa pure autocritica. Ci siamo persi una generazione di arbitri trincerata dietro silenzi che alle menti più sospettose suonavano come implicite ammissioni di colpa: tutto perdonato, dimenticato, il nuovo corso ordito da Alfredo Trentalange, fresco di elezione alla presidenza dell’Aia, inaugura all’insegna della trasparenza.

Il passaggio più commentato dello sbarco in tv di Orsato è stata la sua ammissione – a precisa domanda – dell’errore commesso in occasione di Inter-Juventus dell’aprile 2018, partita chiave di quel campionato. L’arbitro veneto non estrasse il secondo cartellino giallo nei confronti di Pjanic, che era entrato duramente su Rafinha: «Su quell’episodio ho sbagliato valutazione», ha candidamente ammesso, senza ricerca di alibi né giustificazioni. Anzi, spiegando pure, senza peli sulla lingua, come è stato indotto all’errore: l’eccessiva vicinanza all’azione non gli ha permesso di cogliere appieno la virulenza dello scontro tra i due giocatori, facendogli dunque perdere la visione d’insieme. E aggiungendo che il Var non poteva intervenire, perché il semplice cartellino giallo (anche se secondo, in quell’occasione) non è materia dello strumento tecnologico.

Da tifosi o semplici appassionati si fatica ad accettare le decisioni sbagliate di un arbitro: avvolti nelle loro tenute sgargianti (ché il nero è ormai passato di moda) li consideriamo dei Robocop con una vena di crudeltà, con quel loro fare un po’ autoritario che non ammette discussioni. Se un arbitro commette qualche errore di valutazione, allora è per forza colpa del suo “protagonismo”: ecco, questa definizione riassume alla perfezione la diffidenza strisciante e comune verso la classe arbitrale, perché li accusa di una propensione allo sbaglio figlia di un glitch caratteriale, come se l’imperfezione – involontaria – non facesse parte del loro bagaglio.

In campo, invece, gli arbitri incarnano esattamente il contrario: dubbi, ripensamenti, cautela sono all’ordine del giorno, le certezze sono semplicemente una facciata per non dare adito a contrasti, incomprensioni, scetticismo. È una patina che emerge con vivida forza dall’ormai datato ma sempre attuale documentario Kill the Referee (Yves Hinant, Delphine Lechericey, Eric Cardot), che ha seguito alcuni arbitri protagonisti di Euro 2008: nei loro momenti di pausa tra una partita e l’altra, ma anche in campo, con l’ausilio di un microfono in grado di restituire le voci – e le ansie, anche – della terna arbitrale. Il titolo del documentario prende spunto dalla violenza verbale di cui è stato vittima l’inglese Howard Webb dopo la concessione, all’ultimo minuto, di un calcio di rigore per l’Austria contro la Polonia; il premier polacco dell’epoca, Donald Tusk, espresse parole decisamente fuori luogo commentando il suo operato («Avrei potuto ucciderlo»).

Di quella partita, ancor prima che il rigore assegnato agli austriaci, è ben documentato il conciliabolo nell’intervallo tra Webb e il suo guardalinee: materia del contendere, il gol della Polonia, segnato in fuorigioco non ravvisato. In quel breve e misurato scambio tra i due c’è tutta l’essenza psicologica della professione di arbitro: il rimorso per la segnalazione sbagliata, ma anche il farsi forza a vicenda, in maniera quasi artefatta, come una specie di auto-convincimento. L’arbitro, essenzialmente, ha paura di sbagliare; e quando lo fa, il rischio più grande è rimanere inghiottito da quel pensiero.

Per questo nessun arbitro potrà mai dire di essere contrario all’utilizzo della tecnologia in campo: ha semplificato il loro lavoro, soprattutto in situazioni, come il fuorigioco, dove il margine di errore è davvero ridotto. Anche se poi, come ha puntualizzato Orsato, l’arbitro continua ad andare in campo fidandosi di sé e dei suoi assistenti, come se il Var non esistesse: è il modo per rimanere concentrati per tutto l’arco della partita, e non lasciarsi andare ad attimi di distrazione sapendo che, da qualche parte, ci sarà qualcuno ad arrivare in tuo soccorso. Una liturgia che, in ogni caso, abbiamo appreso rapidamente: i minuti di pausa, con l’arbitro fermo in mezzo al campo a dialogare con i suoi assistenti, i giocatori che si avvicinano a metà tra lo stralunato e il basito, gli attimi che scorrono lenti e carichi di tensione come prima di un duello western.

È in questi momenti che il tifoso/appassionato scruta, indaga, a volte punta il dito: cosa si staranno dicendo, quali valutazioni stanno adottando, eccetera. Uno scenario talmente consueto che l’ex calciatore inglese Chris Sutton ha lanciato una proposta: microfonarli. «Se spiegano cosa vedono in tempo reale ne guadagneranno in simpatia: gli spettatori vedranno le cose con i loro occhi». Ecco, è un buon punto: aiuterebbe a entrare nel loro meccanismo decisionale, comprendendo il loro punto di vista. Tanto in partita quanto fuori: se calciatori, allenatori e dirigenti esprimono ogni giorno il proprio pensiero, perché non dovrebbero farlo gli arbitri?

Certo, servirebbe anche costruire una cultura diversa, ed è questo il passaggio più difficile, se non utopico: l’ammissione di Orsato in merito a quell’episodio del Meazza ha alimentato ulteriormente le polemiche. Probabilmente ha ragione Andrea Pirlo quando dice: «Trovo giusto che gli arbitri possano parlare con i media, è una cosa nuova che può tornare a favore di tutti. L’importante è che si parli di episodi della partita di pochi giorni prima, e non di episodi di tre-quattro anni fa». Sapremmo farne buon uso, cercando di cogliere al meglio le sfumature interpretative, analizzando le cose con obiettività e comprensione, e magari anche accettare un errore e lasciarcelo alle spalle?