Pirelli e l’Inter: quando anche lo sponsor ha un valore sentimentale

Dalla prossima stagione, dopo 25 anni, il logo Pirelli non sarà più sulle maglie dell'Inter: è la fine di un'era che ha segnato la storia del club nerazzurro, che ha cambiato la sua identità, non solo la sua estetica.

Ho ripreso in mano, dopo la notizia che Pirelli non sarà più lo sponsor dell’Inter, la maglietta dell’anno del Triplete. L’ho guardata tante volte negli anni, per ragioni sportive e ragioni private (me la fece arrivare in un ristorante di Etiler, un bel quartiere di Istanbul, il mio amico Bogos, appena prima che iniziasse la finale di Champions League contro il Bayern Monaco), e solo ora mi sono reso conto che non avevo mai pensato al logo Pirelli, nel senso che non ho mai pensato negli ultimi venti e più anni che potesse esistere una maglietta dell’Inter senza il logo Pirelli, così come non mi è mai venuto in mente che possa esistere una maglietta dell’Inter senza il nerazzurro.

Da quando Pirelli è diventato lo sponsor dell’Inter, si son viste magliette gialle, magliette rosse, magliette grigionere (ovviamente con il richiamo nerazzurro da qualche parte) magliette con le strisce larghe, con le strisce strette, con le strisce orizzontali, con le strisce sottilissime, oppure irregolari, magliette con un tocco dorato, il colletto bianco, magliette firmate Umbro, poi Nike, magliette con il simbolo dell’Inter vecchio, magliette con il simbolo dell’Inter rinnovato. L’unica cosa che non è mai cambiata, qualsiasi sia stato l’anno, qualsiasi sia stato lo stile, è stato il logo Pirelli. È rimasto sempre lì, stampato sul torace, sempre alla stessa altezza, con quella formidabile P allungata e le altre lettere riparate sotto.

Sono andato a vedere di chi eravamo pazzi il primo anno che il logo Pirelli è apparso sul petto dei calciatori interisti (era la stagione 1995/96) e ho rivisto quel piccoletto di Roberto Carlos (che gioia, quelle punizioni di esterno sinistro). Il logo Pirelli è lo stesso che quest’anno indossa Romelu Lukaku e un paio d’anni fa indossava Mauro Icardi e prima aveva indossato Zanetti e tutti gli altri che sono passati (o entrati) nelle nostre vite.

Il marchio Pirelli è rimasto sempre uguale perché dal 1982 è stato definitivamente formalizzato da Salvatore Gregorietti, il designer che fece l’ultima modifica della storia del logo e poi scrisse un manuale che istruiva chiunque lo riproducesse a utilizzarlo correttamente, fornendo la proporzione esatta tra i caratteri, la precisa distanza che una lettera doveva avere dall’altra. Fino agli anni Cinquanta del Novecento il marchio aveva sì la P allungata, ma essa era stata deformata in vari modi, a volte allungando ancora di più l’occhiello della P, a volte stendendo smisuratamente l’asta: un’irrequietezza calligrafica che è il contrario della fissità con cui il logo si presenta oggi.

I calciatori sono cambiati, gli allenatori sono cambiati, anche i presidenti sono cambiati, mentre il logo Pirelli è rimasto sempre uguale a se stesso, assoluto e immobile, quasi fosse la riproduzione estetica del sentimento più stupefacente che il tifo alimenta: la fedeltà, la durata nel tempo dell’oggetto del desiderio. Ogni squadra di calcio lega una parte della propria estetica a uno sponsor, alcuni dei quali sono indimenticabili, come ERG sulla maglia della Sampdoria, Buitoni su quella del Napoli, Tamoil su quella dell’Atalanta, Barilla su quella della Roma. Eppure nessuna squadra italiana ha sovrapposto così a lungo i propri segni a quelli di un marchio come ha fatto l’Inter con Pirelli, fino al punto di rendere indistinguibile l’iconografia dell’una e l’iconografia dell’altra. Una forma di sincretismo simbolico che ha toccato l’apice quando Pirelli ingaggiò Ronaldo nello spot del 1998, rendendo la creatura interista più venerata di allora (e forse di sempre) una testimone del marchio Pirelli e facendo del marchio Pirelli un’estensione dell’interismo.

Nella pubblicità, Ronaldo non è solo un calciatore che punta l’avversario e lo lascia stecchito, non è solo il giocatore che corre sullo schermo più velocemente di quanto i nostri occhi riescano a vedere, ma è l’uomo che incarna la potenza e il controllo, perché la prima non è nulla senza la seconda, dice lo spot, così come la fede e la speranza sono niente senza la terza virtù teologale, che è la carità, dice il cristianesimo. Un accostamento che è suggerito dal fatto che lo spot finisce con Ronaldo che sale in cima alla città di Rio de Janeiro e prende il posto del Cristo Redentore, il Messia.

Il sacro – me ne rendo conto – è una categoria da non scomodare a sproposito, e però nel calcio accade che nominare le fedi, il miracolo, lo stupore, l’incanto, il divino, non risulti affatto ridicolo e fuori luogo, come avviene nel resto delle attività umane del mondo occidentale e secolarizzato. Ma anche il marchio – quando funziona – ha in sé qualcosa religioso, poiché è un segno della sacralizzazione degli oggetti impressa dal capitalismo. Di questi marchi Pirelli è uno dei più riusciti e attraenti. Ancora più precisamente: iconici. Basta guardarlo per vedere scorrere in controluce una parte della storia dell’Inter. Dal prossimo anno non sarà più su quella maglia, e chissà il colpo che ci prenderà quando non lo vedremo più.