Viktor Orbán, calcio e autoritarismo

Il primo ministro ungherese ha investito più di due miliardi di dollari nel suo sport preferito, soprattutto in stadi moderni e sovradimensionati: l'ha fatto per scopi propagandistici, per rafforzare la sua immagine, il culto della sua personalità.

Il primo viaggio all’estero del primo ministro ungherese Viktor Orbán fu nel 1998: la destinazione era Parigi, l’occasione era la finale della Coppa del Mondo. Allo Stade de France di Saint Denis, la Francia diventò campione del mondo per la prima volta nella sua storia calcistica battendo 3-0 il Brasile di Rivaldo-Bebeto-Ronaldo, grazie a due gol di Zidane (ovviamente uomo partita, uomo mondiale, uomo tutto) e uno di Petit. Viktor Orbàn era sugli spalti, assistette a una delle più incredibili finali della storia del calcio: non se ne perderà più una, di Coppa del Mondo e di Champions League. Mihály Takács e István Csáki sono due dipendenti della Felcsút Puskás Ferenc Football Academy. Felcsút è uno dei due villaggi in cui Orbán ha trascorso l’infanzia: 1.688 anime in mezzo alla provincia di Fejèr, cioè in mezzo al nulla, sullo stemma del villaggio un rastrello, una falce e un mazzo di spighe di grano tenute assieme da una fascia tricolore. L’ultima volta che a Felcsút è successo qualcosa era il 21 aprile del 2014, giorno della finale della Puskàs Cup e dell’inaugurazione della Pancho Arena. Progettata dall’architetto Imre Makovecz, la Pancho Arena è uno stadio di categoria quattro secondo la classificazione UEFA, con una capienza di 3816 posti. Di nuovo: Felcsút ha 1688 abitanti, non si registrerebbe il sold out nemmeno se tutti gli abitanti della vicina Alcsútdoboz (1427) si presentassero il giorno della partita. Vicino alla Pancho Arena c’è una casa, una bella casa: il proprietario è Viktor Orbàn.

Mihály Takács e István Csáki, si diceva. Dipendenti della Felcsút Puskás Ferenc Football Academy fondata da Orbán, che ha sede nella Pancho Arena voluta da Orbán, costruita nel villaggio in cui Orbán ha passato l’infanzia. Takàcs e Csàki hanno scritto un libro intitolato Calcio e scienza, un manuale destinato all’insegnamento universitario. Alla presentazione del libro l’ospite d’onore è – ovviamente – Viktor Orbán. Il primo ministro parla del calcio come gioco aperto a e corretto con tutti, in particolare con il popolo ungherese: sul campo di calcio gli ungheresi hanno battuto potenze occupanti, hanno scritto la loro storia e arricchito la cultura nazionale. «Per noi, il calcio è sempre stato consolazione e gratificazione», dice il primo ministro.

Tutti gli autocrati hanno bisogno di miti fondativi: sono necessari alla costruzione di qualsiasi “uomo nuovo”, sia questo mediterraneo, teutonico o magiaro. Come tutti gli autocrati, Orbán sa che la nostalgia è il più potente dei sentimenti: c’è sempre un presente che non è come ce lo aspettavamo, c’è sempre un passato che è meglio di come ci sembrava all’epoca. Il calcio ungherese è il posto delle fragole, una bacheca piena di coppe assegnate al termine di tornei che non esistono più, di magliette tipo camicia vichinga, di palloni marroni con la cucitura esposta. Il calcio in Ungheria è ancora Ferenc Puskás, Sándor Kocsis, József Bozsik e Nándor Hidegkuti, i “Magnifici Magiari” della Aranycsapat che il 25 novembre 1953 batterono 6-3 l’Inghilterra davanti a 105.000 spettatori che ebbero la fortuna di assistere alla Partita del Secolo. L’Inghilterra non perdeva in casa da 90 anni. Come sempre convinti che ogni loro sconfitta sia un errore storiografico, gli inglesi si presentarono a Budapest sicuri di correggere: finì 7-1 per l’Ungheria, un back-to-back passato alla storia come “i disastri ungheresi”. Quell’Ungheria non vinse il Mondiale del ’54 solo per intercessione divina: persino un popolo dalla spiccata autostima come quello tedesco ebbe il buongusto di ribattezzare quella vittoria per 3-2 “il miracolo di Berna”. A testimonianza dell’incredulità suscitata da quel risultato, l’orologio che teneva il tempo in quella finale è stato restaurato e piazzato all’ingresso dello Stade de Suisse: è successo davvero, gli ungheresi la persero davvero quella partita.

Orbán sa quanta fascinazione eserciti questa epica: lo sa perché è una fascinazione che subisce lui stesso, che lo ha portato a sognare una carriera nel pallone (non andrà mai oltre il semi-professionismo, mai sopra le categorie inferiori e i campionati locali), che gli fa trovare il tempo necessario a guardare – così si dice – sei partite alla settimana. È la fascinazione che convince popoli interi che il meglio è già venuto, che nel passato ci sono il latte e il miele, che il presente è una selva oscura e che il futuro è terra incognita. L’operazione nostalgia è il piano d’azione del reazionario.

Tutti gli autocrati hanno amato il calcio. Non tanto lo sport in sé e per sé, quanto le dimostrazioni di forza che esso consente: tutti gli autocrati costruiscono stadi. Orbán non fa eccezione: dal 2010 ha investito nel calcio più di due miliardi di dollari; un dollaro ogni 400 della spesa pubblica ungherese va a finire nel calcio. Un complessissimo sistema di sgravi fiscali messo su dai suoi governi permette ai privati di investire soldi nel calcio ungherese, guadagnandoci al momento della dichiarazione dei redditi, sicuri che la tracciabilità e la trasparenza dei movimenti bancari non saranno mai e poi mai un problema per il fisco. Andràs Tàllai, esponente di Fidesz (il partito di Orbán) e capo dell’equivalente ungherese dell’Agenzia delle Entrate, ha approfittato delle maglie larghe della legge per costruire uno stadio da 4.200 posti a Mezőkövesd, una città di 17.000 abitanti nel nord dell’Ungheria. Tamás Deutsch, presidente della MTK Budapest FC, co-fondatore di Fidesz ed europarlamentare, grazie a Orbán ha potuto regalare alla sua sua squadra “la cattedrale del calcio” che si merita. Il meccanismo della concorrenza virtuosa fa sì che dove il privato spende il pubblico spande: il Ferencváros ha uno stadio nuovo, a Budapest ora c’è una Groupama Arena, a Debrecen si è costruito il Nagyerdei Stadion. Nel progetto di Orbán, lo stadio oggi è l’Hungaroring della Formula 1 negli anni Ottanta: un moltiplicatore dei cui effetti in economia e in prestigio nazionale godranno solo i virtuosi, cioè i pazienti.

Ma le infrastrutture sono la parte facile del lavoro. Il recente passato del calcio ungherese ha fatto sparire la voglia di trascorrere la domenica pomeriggio allo stadio: belli, nuovi, moderni, costosi e soprattutto vuoti, i campi sportivi di Orbán non sono mai occupati oltre il 20% della capienza. Gli ungheresi odiano il loro calcio al punto da odiare il calcio tutto: prima delle elezioni del 2010, i consiglieri politici suggerirono a Orbán di non farsi vedere tra il pubblico della finale di Champions League perché gli elettori l’avrebbero presa male. Non si parla di calcio finché il calcio ungherese continuerà a fare schifo, siccome il calcio ungherese continuerà sempre a fare schifo, di calcio non si parla mai, per nessuna ragione, in nessun caso.

Viktor Orbán nel 1998 prima di un match amichevole contro l’Hungarian American Citizens Club, squadra di calcio di cittadini ungheresi residenti negli Stati Uniti (Stan Honda/ AFP tramite Getty Images)

Ma il calcio vive in cicli, la gloria in questo sport spesso consiste nel vivere il momento giusto del ciclo. Dominik Szoboszlai potrebbe essere la prova che il passato sta tornando, che esiste la speranza di un’altra Aranycsapat di là da venire. Certo, bisogna continuare a fare quel che si è fatto fino ad adesso: fidarsi molto, dubitare mai, chiedere niente. Orbán sa quello che fa, dicono i sostenitori convinti e i propagandisti di mestiere: Szoboszlai è la dimostrazione che Budapest può ancora essere, può tornare a essere, una delle capitali di quel movimento di arte e pallone conosciuto con il nome di Scuola Danubiana.

È possibile succeda, è probabile accada, a patto che l’opposizione la smetta di parlare di evasione fiscale legalizzata, di nepotismo e clientelismo, di scuole e ospedali ai quali mancano i soldi che sono stati spesi per stadi e centri d’allenamento. Non c’è spazio per il dubbio, figurarsi per il dissenso. Come tutti gli autocrati, Orbán è convinto che la sua scommessa sul calcio sia un investimento su se stesso: «Non sono mai impressionato dalle controversie che emergono durante lo sviluppo di un processo», disse nel novembre del 2019 alla radio nazionale ungherese. E poi aggiunse:  «Una volta presa una decisione bisogna attenercisi fino alla fine, perché una volta raggiunto il risultato tutti quanti applaudiranno».