Surfing Fukushima

Le spiagge della prefettura di Fukushima erano tra le più frequentate del Giappone, per il surf. Il disastro nucleare di dieci anni fa ha rischiato di cancellarle, ma ora i surfisti stanno tornando a cavalcare le onde.

Sembrano minuscoli, visti da qui. Un cavallo nero incede lentamente a pochi passi dalla riva, condotto dal profilo scuro di un cavaliere. Dal mare arriva un vento freddo. Alle loro spalle, un complesso monumentale di edifici, silos, camini, che pare immergersi direttamente nell’oceano è la centrale termoelettrica di Haramachi. È l’alba di una domenica mattina. Il parcheggio a pochi passi dall’argine sopraelevato si sta popolando. Alcuni uomini sulla quarantina, qualcuno più verso i cinquanta, tirano fuori dalle auto le tavole da surf. Uno infila la muta accanto al bagagliaio aperto: il modo in cui è organizzato il vano rivela l’abitudine di chi scende in spiaggia ogni giorno. La centrale di Haramachi rende immediatamente riconoscibile la spiaggia di Kitaizumi, a Minamisōma, testimonianza dei trascorsi industriali di questa zona. Una ventina di chilometri più a sud, si trova la centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi, l’impianto che nove anni fa ha cambiato per sempre il destino di questa regione.

La storia del surf a Fukushima viene da lontano. E si intreccia con quella del disastro seguito al terremoto e allo tsunami dell’11 marzo 2011: l’acqua arrivata dal mare che mette fuori uso i sistemi di raffreddamento, le esplosioni all’interno dei reattori, la fuoriuscita di materiale radioattivo. Il più grave incidente nucleare dai tempi di Chernobyl, che causerà l’evacuazione di quasi 200mila persone nelle cittadine a ridosso della centrale, tra cui Minamisōma. Le sue spiagge sono rimaste chiuse per otto anni a causa dei lavori di bonifica e riaperte al pubblico solamente nel luglio scorso. Inaccessibili a tutti, tranne che alla sua comunità di surfisti.

Shigenori Suzuki è uno degli atleti più in vista della zona, ancora capace di vincere, a 38 anni, gare a livello nazionale: «Sono nato qui, a Minamisōma», racconta, «e dopo quello che è successo nel 2011 me ne sono andato. Ero preoccupato per la salute di mio figlio appena nato». Dopo due anni lontano dalla costa, Shigenori è tornato a casa, insieme alla famiglia. Come molti da queste parti ha trovato lavoro grazie alla bonifica. Guida uno dei tanti camion che ogni giorno trasportano tonnellate di terreno contaminato, chiuso in sacchi neri impermeabili, nei depositi designati. «Quando sono tornato, avevo paura di entrare in acqua. Ma ho sempre vissuto vicinissimo all’oceano, ho cominciato a fare surf a 14 anni. Non potevo stare lontano dalla tavola. E come me, molti altri surfisti sono tornati. Molti di loro controllavano continuamente il livello delle radiazioni: era basso. E per questo ci sentivamo sicuri a immergerci». Il contatore Geiger è un accessorio molto diffuso tra la popolazione della prefettura di Fukushima, non solo tra i surfisti. Le colonnine con i rilevatori di radiazioni sono diventate un elemento tipico del paesaggio, spesso l’unico segno di attività nei piccoli centri ormai disabitati.
Le spiagge invece non hanno mai smesso di essere frequentate. Sin dalla sua introduzione a Fukushima, il surf è diventato un elemento fortemente identitario, quasi quanto la figura del samurai: ogni anno un festival dona vita a questi guerrieri dell’epoca feudale. Si tiene a Minamisōma fin dal XIV secolo e attrae visitatori da tutto il Giappone.

Furono i marines a introdurre il nuovo sport nel Paese, all’inizio degli anni Cinquanta. Un incontro perfetto per un popolo da sempre in relazione con l’oceano per la sua sopravvivenza: alcune truppe si insediarono nella base militare di Atsugi, una cinquantina di chilometri a sud di Tokyo, una delle strutture operative principali durante le guerre di Corea e del Vietnam. I militari, durante i pochi momenti liberi, si precipitavano sulle spiagge di Shōnan, poco lontano. Qui cominciarono a surfare con i loro longboard colorati: i ragazzini del luogo, meravigliati, si fecero insegnare i primi rudimenti, mentre in cambio accettarono di tenere le tavole al sicuro in casa o in rifugi sulla spiaggia. Kamogawa, nella prefettura di Chiba, ospitò nel 1966 la prima competizione, che attirò 99 atleti. Chiba è tuttora uno dei centri principali per i giovani surfisti, dove in molti si avvicinano al professionismo grazie alle gare che si tengono durante l’anno. Gran parte dell’attuale Nazionale giapponese si è formata qui. E la sede scelta per le Olimpiadi di Tokyo 2020 (ora rinviate al 2021) è la spiaggia di Tsurigasaki, nella stessa prefettura. Questo nella prima edizione in cui il surf è riconosciuto come disciplina olimpica. Scelta che sarebbe potuta cadere su Fukushima, forse, qualche anno prima.

La diffusione del surf procedette in parallelo con l’industrializzazione di questo territorio. I lavori per la costruzione della centrale di Fukushima Dai-ichi, progettata dalla General Motors e amministrata dalla Tepco, la più importante impresa energetica nipponica, vennero avviati nel 1967. L’impianto, che comprende quattro reattori nucleari ed è affiancato da un secondo impianto con altri due reattori, venne costruito a ōKuma, a pochi passi dall’oceano poiché l’acqua proveniente dal mare poteva essere utilizzata negli impianti di raffreddamento. Il sogno nucleare diventò il simbolo della modernizzazione del Paese, nonostante il trauma delle bombe atomiche. Nello stesso periodo, un piccolo gruppo di surfisti scoprì le spiagge nei dintorni della centrale. Ad aiutare l’espansione del movimento, i primi anni, concorsero anche piccole ma fondamentali innovazioni tecnologiche, che trasformarono alcune attività tradizionali. La regione del Tōhoku, in cui si trova la prefettura di Fukushima, fino a quel momento viveva prevalentemente di pesca. Nel 1963 una piccola azienda di Ishinomaki, la Mobby Dick, inventò delle mute pensate per le pescatrici di ostriche, ma negli anni successivi dedicò una parte della sua produzione ai molti nuovi appassionati di surf. Anche Minamisōma vide nascere la sua prima fabbrica dedicata esclusivamente alle mute da surf, la ZigZag, aperta nel 1979. L’azienda è ancora attiva, ha cambiato nome in Riga International e la sua sede operativa si trova nella capitale, ma i suoi stabilimenti principali sono ancora qui.

Gli anni Duemila rappresentarono il momento d’oro per il surf a Fukushima. Quasi 100mila surfisti raggiungevano Minamisōma ogni anno: donne, ragazzini, studenti universitari, appassionati da tutto il mondo, tra cui molti atleti provenienti dalla West coast degli Stati Uniti. Gran parte del merito fu di Happy Island Surf Tourism, associazione nata in collaborazione con la città di Minamisōma per immaginare alternative, anche economiche, in un territorio colpito dal declino dell’industria. «Lo scopo dell’associazione era quello di gestire il turismo legato al surf nelle nostre spiagge», spiega oggi Hideki Okumoto, docente di economia all’università di Fukushima e tra i fondatori dell’associazione. «Abbiamo organizzato diverse competizioni negli anni e molte attività legate all’oceano. C’era una scuola di surf, dedicata ai bambini. Eravamo responsabili della pulizia delle spiagge e della gestione della sicurezza in acqua». Alcuni surfisti vennero assunti come bagnini dalla municipalità, mentre i molti visitatori potevano approfittare dello spazio commerciale a due passi dalla spiaggia, con bar e ristoranti, negozi legati al surf, un grande spazio per il campeggio. Hideki mi mostra una vecchia rivista sportiva che tiene sempre in auto. Un lungo servizio documenta una gara organizzata dall’associazione nel 2006, immortalata da diverse televisioni. Mi indica una foto: si vede un ragazzo giovanissimo, che si muove con sicurezza tra le onde. È il campione hawaiano John John Florence, tra i surfisti più importanti degli ultimi anni. «Nella primavera del 2018, dopo alcuni anni di pausa, l’associazione ha ripreso le sue attività. Quest’anno continueremo a occuparci della gestione delle spiagge», racconta Hideki. «In programma c’è anche una nuova gara professionistica nella spiaggia di Kitaizumi. Ma la questione Coronavirus rende tutto incerto. Vediamo come andrà nelle prossime settimane».

Lo tsunami dell’11 marzo del 2011 arrivò a sconvolgere per sempre la vita di queste cittadine abituate a vivere in simbiosi con l’oceano. Furono più di 18mila le vittime in tutta la regione del Tōhoku. A Fukushima l’unico decesso registrato fu quello di un operaio della centrale, morto di cancro nel 2018, esposto per troppo tempo alle radiazioni. I giorni immediatamente successivi allo tsunami furono pieni di incertezze. Il governo giapponese e la Tepco non conoscevano, e forse in parte nascosero, i dati sullo sversamento di materiale radioattivo. Venne ordinata l’evacuazione immediata dell’area nel raggio di tre chilometri dalla centrale di Fukushima Dai-ichi; il giorno dopo l’ordine venne esteso alle cittadine circostanti fino ai venti chilometri di distanza dal complesso. Gli abitanti di centri come Okuma, Tomioka, Tamura, Namie, furono chiamati a raccogliere rapidamente i propri averi e salire sui pullman che li avrebbero portati in alloggi temporanei al di fuori della zona critica. Hideki ci racconta di aver attraversato l’area nelle settimane successive al disastro, nei pressi di quello che fino a poco prima era un esteso allevamento di mucche wagyu, una delle razze più pregiate di tutto il Giappone. Sgomento, scese dall’auto per fotografare quello che stava vedendo: lungo la strada che portava alla centrale, erano decine gli animali agonizzanti, alcuni già morti, stesi a terra. Non c’era più nessuno che potesse tornare e dar loro da mangiare. Lungo quella stessa strada, oggi, capita di imbattersi nelle scimmie delle nevi che scendono dalle montagne e si siedono sull’asfalto, costringendo gli automobilisti a rallentare.

A Futaba, piccolo centro a soli dieci chilometri dalla centrale, tutto si è fermato a nove anni fa. È stata ricostruita solo la stazione ferroviaria, ma davanti alle case abbandonate cresce l’erba alta. Automobili e motociclette sono ancora parcheggiate nei vialetti; le biciclette spinte a terra dal vento restano in attesa di qualcuno che le raccolga. Il dormitorio dei tecnici della Tepco è rimasto tale e quale, c’è solo molto disordine e qualche finestra rotta. La città di Futaba è stata riaperta per la prima volta alla fine di marzo. La torcia olimpica sarebbe dovuta passare per le sue strade il 26: l’area di Fukushima è stata scelta infatti come prima tappa del percorso della fiamma, a simboleggiare la rinascita dell’area. Il rinvio della manifestazione e l’attesa indefinita del passaggio della torcia, svela quanto la vita da queste parti sia ancora sospesa.

«Quattro mesi dopo lo tsunami, sono stato io il primo a ricominciare a fare surf qui». A parlare è Koji Sukuzi, leggenda del surf di Fukushima. Frequenta la spiaggia di Kitaizumi da più di quattro decenni, lui che di anni ne ha 64. «Ufficialmente non era permesso entrare in acqua», ricorda Koji, «ma io avevo degli amici sia in polizia che al municipio. Erano loro a controllare il livello di radiazioni in mare. Mi hanno detto che potevo immergermi, prendendo tutte le precauzioni possibili». Dopo Koji Suzuki, in molti sono tornati a immergersi in queste acque. La spiaggia di Kitaizumi, che si trova in un breve tratto miracolosamente risparmiato dall’enorme muro anti-tsunami in costruzione sulla costa del Tōhoku, è il luogo in cui la comunità di surfisti vuole ritrovarsi, superando lo stigma cui è stata condannata. «Prima dello tsunami qui venivano dei semplici appassionati di surf, e nient’altro. Oggi c’è una consapevolezza totalmente diversa, anche rispetto all’importanza dell’ambiente. Chi viene qui oggi sente fortissimo il desiderio di proteggere il luogo in cui fa surf. C’è un grande attaccamento a questo posto e a queste spiagge». Shinji Murohara è un punto di riferimento per tutti gli sportivi della zona di Fukushima. Ex campione di surf, è stato uno degli artefici del grande successo del turismo legato alla disciplina degli anni Duemila, anche lui tra i fondatori dell’associazione Happy Island Surf Tourism (Fukushima, in giapponese, significa proprio questo: isola felice). Nel 2006, dopo aver lasciato un lavoro come impiegato, fonda la sua fabbrica di tavole da surf, la Mps, nella piccola cittadina di Odaka. Oggi produce 1200 tavole all’anno che vende in tutto il Giappone e ha cinque dipendenti: è stato uno dei primi a riuscire a tornare ad assumere persone dopo il 2011. «Con lo tsunami abbiamo vissuto un momento di grande timore. Ma il prossimo arriverà magari fra cent’anni: non può farci paura. Chi ha deciso di rimanere qui vuole dare nuova vita a questo territorio. Lo tsunami ha portato via le case, ha fatto scomparire molti lavori. Ma chi è rimasto vuole ricostruire la città, ricongiungendosi con la cultura di queste terre, quella dei nostri padri e dei nostri nonni».

Sorride, Shinji, mentre mostra le tavole da surf in lavorazione. La sua città, la sua comunità, hanno attraversato molte difficoltà. Il tramonto dell’industria, la disoccupazione, lo spopolamento. Poi lo tsunami, la minaccia invisibile delle radiazioni, l’evacuazione forzata. Ora la presenza di un virus insidioso, a interrompere bruscamente il programma di eventi legato alle Olimpiadi, un’occasione preziosa per ripartire. Il surf, più di ogni altra cosa, è fatto di cadute, e affrontare l’oceano, per chi è nato qui, è un rituale che si rinnova ogni giorno.

Da Undici n° 34