Allenare le Nazionali è diventato un ripiego?

In passato, arrivare a fare il Commissario Tecnico era il coronamento di una carriera. Oggi è un ruolo poco ambito, e che serve ai tecnici per rilanciarsi sul mercato dei club.

Qualcuno sa chi era Helmut Schön? In Germania lo ricorderanno sicuramente, ma forse la storia universale del calcio lo ricorda un po’ meno. Eppure è un allenatore che ha una bacheca luccicante, che ha portato la Nazionale della Germania Ovest alla vittoria della Coppa del Mondo nel 1974, dell’Europeo del 72 e che, precedentemente, perse altri due Mondiali in due partite che hanno segnato la storia dello sport: la finale del 1966 contro l’Inghilterra, quella del leggendario gol fantasma di Hurst, e la semifinale del 1970, la sconfitta per 4-3 contro l’Italia. Senza dimenticare che la Germania di Schön ha giocato e perso anche la finale dell’Europeo 1976, un’altra gara passata alla storia – per il cucchiaio di Panenka durante la lotteria dei rigori. Nonostante tutti questi successi e la sua presenza in tutti i grandi momenti del calcio anni Settanta, Schön viene sostanzialmente ignorato in tutte le classifiche sui migliori allenatori di tutti i tempi.

Proprio una classifica di questo tipo, quella celebre di France Football, vede al primo posto un allenatore che è entrato nell’immaginario collettivo soprattutto grazie al percorso fatto con la sua Nazionale: Rinus Michels. Che creò il grande Ajax, certo, ma che in fondo vinse una sola delle tre Coppe dei Campioni alzate da Cruijff e compagni tra il 1971 e il 1973. Da allenatore del Barcellona, però, guidò l’Olanda nel Mondiale del 74, in quella che ancora oggi viene considerata l’avventura più rivoluzionaria di una Nazionale di calcio. Insomma, di quei Mondiali tutti ricordano lo sconfitto, nessuno il vincitore.

Forse è questa una delle differenze più marcate tra due mestieri profondamente diversi: allenatore di una squadra di calcio e selezionatore di una Nazionale. La vittoria aiuta sempre, è un balsamo per i ricordi. Ma come commissario tecnico, per entrare nella storia, devi lasciare il segno, devi sovvertire l’ordine. Come ha fatto Michels, appunto. Oppure come ha fatto il colonnello Lobanovski che si alternava tra la Nazionale e la Dinamo Kiev. O ancora come Martin Hidalgo, che nel 1982 fu a un passo dal compiere il miracolo con la Francia dopo aver creato il prodigio Saint-Etienne, che effettivamente vinse gli Europei casalinghi di due anni dopo, che in pratica tirò fuori la Nazionale Bleus fuori dall’anonimato calcistico, e che per questo ancora oggi è impresso nella memoria dei tifosi transalpini, forse anche più di Jacquet e di Deschamps – che pure hanno portato a casa il titolo mondiale. Anche Bobby Robson approdò sulla panchina dell’Inghilterra nel momento in cui era considerato il miglior allenatore nel Regno Unito, con buona pace di Terry Venables, che tra l’altro lo seguì di qualche anno.

Ecco. Quattro nomi non casuali: Michels, Lobanovski, Hidalgo, Robson. Cui può essere aggiunto Arrigo Sacchi: dopo aver stravolto il calcio col suo Milan, Sacchi venne ingolosito dalla prospettiva di rieducare il football italiano attraverso la maglia più rappresentativa. L’operazione non riuscì, anche se perse sia i Mondiali sia gli Europei per due calci di rigore sbagliati, tra l’altro dai due calciatori che più lo misero tatticamente in difficoltà: Roberto Baggio (anche se in realtà nella finale contro il Brasile sbagliarono anche Baresi e Massaro) e Gianfranco Zola.

Proprio la storia di Arrigo Sacchi è un ottimo termine di paragonare per chiedersi se sia cambiato qualcosa, se le Nazionali oggi abbiano ancora l’appeal di venti o più anni fa. La domanda che ci poniamo è: Guardiola andrebbe ad allenare la Spagna? Non ne ha mai parlato nessuno, e chissà quanto abbiano pesato il suo ingaggio – di cui, non a caso, si fanno carico gli emiri del City – e le sue idee politiche, caratterizzate da un acceso indipendentismo catalano e quindi in contrasto col sentimento nazionale. Al netto delle idee politiche, però, lo stesso ragionamento vale per Mourinho, che è rimasto sempre lontano dalla panchina del Portogallo; o per Carlo Ancelotti, l’allenatore italiano più vincente e cosmopolita degli ultimi trent’anni, che ha avuto un fugace contatto con la Federazione ma poi la storia è finita nel giro di ventiquattro ore. Ultimamente è toccato a Jürgen Klopp dire di non essere interessato alla panchina della Nazionale tedesca – che Löw lascerà dopo quindici anni dopo gli Europei. Qualcuno potrebbe appellarsi all’eccezione Luis Enrique, che ha vinto il Triplete col Barcellona nel 2015 e oggi è seduto – dopo una pausa dovuta a una tragedia familiare – sulla panchina della Spagna. Ma francamente, nonostante i legittimi trionfi, il suo non è un nome che può essere accostato ai precedenti.

E allora che cos’è cambiato? Perché la guida delle Nazionali non è più il naturale coronamento di una carriera? Un po’, come abbiamo detto, perché è diventato insormontabile il dislivello tra il budget dei grandi club e quello delle federazioni. Pensiamo al concerto di sponsor allestito nel 2014 dal presidente della Figc, Carlo Tavecchio, per affidare la Nazionale ad Antonio Conte – reduce da tre scudetti consecutivi con la Juventus. Dopo due anni di Italia, l’ex ct è tornato sul mercato – quello vero – e ha accettato le offerte del Chelsea di Abramovich prima, e dell’Inter poi.

Ronald Koeman ha lasciato la panchina della Nazionale olandese nell’estate 2020: alla guida degli Oranje, ha vinto 11 partite su 20, ma soprattutto ha raggiunto la fase finale di Nations League e di Euro 2020, dopo che l’Olanda aveva fallito la qualificazione agli Europei 2016 e ai Mondiali 2018 (Richard Heathcote/Getty Images)

C’è anche un altro fattore da tenere in considerazione: il calcio si può dividere in due ere, una pre Champions League e una post Champions League. L’ultimo Mondiale assegnato in regime di Coppa dei Campioni è stato quello del 1990. Fino ad allora, quello che si teneva ogni quattro anni era unanimemente considerato il torneo che incoronava il calciatore e la Nazionale più forte. Se fallivi il Mondiale, restava comunque un’ombra nella tua carriera: è capitato persino a Michel Platini, che per due edizioni consecutive si fermò in semifinale con la sua Francia, e che per questo, principalmente per questo, non viene affiancato ai più grandi di ogni tempo, a Pelé, a Maradona, a Cruijff – che non ha vinto i Mondiali, ma era l’uomo-simbolo dell’Olanda di Michels. Dall’avvento della Champions League moderna, però, questo primato non esiste più. Il Mondiale è stato fagocitato, o quantomeno non è più l’unico riferimento storiografico per determinare la grandezza di un fuoriclasse. Non può più esserlo, visto che né Messi né Ronaldo hanno mai vinto il Mondiale, eppure nessuno ha mai pensato di mettere in discussione la loro leadership calcistica.

Insomma, nel calcio moderno i club contano più delle Nazionali. In campo e in panchina. Il ruolo di commissario tecnico potrebbe essere diventato addirittura una sorta di ripiego. O un’occasione per tornare in pista. Come accaduto per Roberto Mancini, che ha sfruttato al meglio la chance di guidare la Nazionale italiana reduce dallo storico fallimento di Ventura. O anche per Roberto Martínez, che non ha mai allenato una squadra forte come il Belgio e la cui grande impresa da allenatore resta ancora la storica FA Cup vinta col Wigan. Un percorso, quello di rilancio, seguito anche da Ronald Koeman che, proprio grazie all’ottimo lavoro fatto con la Nazionale olandese, ha conquistato la prestigiosa panchina del Barcellona. Quando è arrivata l’offerta della sua ex squadra, che oggi è la squadra di Messi, Rambo non ci ha pensato un attimo a lasciare l’Olanda a Frank de Boer. Un altro tecnico in cerca di rivincite. Anche questo non può essere un caso.