“Speravo de morì prima” è un grido di dolore, ma anche e soprattutto un omaggio, il più bello, profondo e romanista che possa esserci: quella frase, carpita a uno striscione comparso sugli spalti dell’Olimpico quel 29 maggio 2017, giorno in cui Francesco Totti ha dato l’addio al calcio, incarna l’essenza di quello che ha rappresentato l’eterno 10 giallorosso per un’intera tifoseria, e anche oltre. Un’espressione presa a prestito per la nuova serie tv dedicata a Francesco Totti, in onda a partire dal 19 marzo su Sky Atlantic e Now: sei episodi diretti da Luca Ribuoli, con Pietro Castellitto nel ruolo di Totti, Greta Scarano in quello di Ilary Blasi, Gianmarco Tognazzi in quello di Luciano Spalletti, Giorgio Colangeli e Monica Guerritore nei panni dei genitori di Totti. La serie è tratta dall’autobiografia dell’ex capitano della Roma, Un capitano, pubblicato nel 2018 e scritto insieme alla sapiente penna di Paolo Condò.
Il racconto di Speravo de morì prima si concentra sul finale di carriera di Totti, quelle ultime settimane, frenetiche e piene di pathos, che accompagnano l’uscita del campione dal suo mondo. «La base di un prodotto seriale, o di un film, è che ci sia una contrapposizione», ci svela Paolo Condò. Ecco perché, di una biografia ricca e così densa di avvenimenti, si è scelto un preciso momento nella vita di Totti. «Certo, nelle sei puntate si parla anche del passato», prosegue Condò, «ma la trama portante sta nel finale di carriera. La sua contrapposizione, a una prima lettura, è Luciano Spalletti; ma a una lettura più profonda, Totti si trova davanti a qualcosa che, prima o poi, capita a tutti nella vita: l’invecchiamento. Il tema vero è questo: è il disagio dell’uomo di fronte a questa situazione, e come lo approccia. In questo senso Spalletti è semplicemente un messaggero, non c’è un conflitto tra un buono e un cattivo».
La sceneggiatura è stata scritta da Stefano Bises (insieme a Maurizio Careddu e Michele Astori), che ha nel suo curriculum altre produzioni Sky di successo come Gomorra, Il miracolo e ZeroZeroZero. «Con loro ho avuto alcune riunioni in cui ho aggiunto note particolari», spiega Condò, «ma va anche detto che c’è stato poco da spiegare, visto che ho trovato grandi appassionati di calcio». A cui non era certo estraneo il tribolato finale di carriera di Totti, il tema che ha spadroneggiato nella narrativa attorno al capitano giallorosso dopo il suo ritiro: «È stato un addio diverso perché Totti aveva bisogno di un gran finale», spiega Condò. «E lo aveva anche trovato: quando segnò due gol al Torino negli ultimi cinque minuti, ribaltando la partita. Il momento perfetto sarebbe stato quello: Totti, mi ha raccontato, aveva pensato negli spogliatoi di dire basta proprio allora. Sarebbe entrato in sala stampa e avrebbe detto: è stata l’ultima volta che mi avete visto giocare. Una conclusione favolosa, ma non è andata così perché, mi ha spiegato, semplicemente non sapeva come fare: c’era un contratto, mancavano altre partite di campionato».
C’è un altro aspetto che rende Speravo de morì prima un prodotto godibile, in un campo – quello del racconto calcistico – nei cui confronti il cinema ha sempre fatto fatica ad accostarsi. Sta in una sottolineatura di Paolo Condò: «Dopo essere rimasto deluso da tanti film e fiction legate al calcio, ho capito che per fare una cosa di valore bisogna rimanere fuori dal campo. Se si replica l’intensità di una contesa agonistica in campo non è la stessa cosa, si vede subito che è recitato».
Al di fuori del rettangolo da gioco, le possibilità sono invece più ampie, più vivide. E consente maggiori licenze: ecco perché la pretesa che una serie come Speravo de morì prima registri pedissequamente la realtà è sbagliata. Condò aggiunge: «Il registro della serie è molto comico, anche onirico per certi versi: si ricorre all’utilizzo di alcune iperboli per estremizzare il concetto, farlo capire meglio. Come un Cassano che sbuca da tutte le parti, che fa ragionare Totti con la sua intelligenza popolare: è una delle cose più godibili e divertenti. Se il film diretto da Alex Infascelli metteva in luce l’aspetto epico della carriera di Totti, questa è una commedia, non a caso affidata alla regia di Luca Ribuoli, che è stato il regista della serie La mafia uccide solo d’estate: come per un tema delicato come la mafia, ha saputo avere una mano leggera e ironica anche su un fenomeno complesso come Totti».
Totti, dice Condò, è rimasto molto contento del risultato finale «e del modo in cui viene fuori», con una riuscita interpretazione di Pietro Castellitto. C’è chi si è lamentato del fatto che Castellitto non abbia una forte somiglianza fisica con l’ex calciatore, ma anche questa è una pretesa che va messa da parte: «Non si può esigere il fotorealismo: la cosa importante di un attore è che interpreti la personalità del protagonista, un grande personaggio». Un prodotto pop che solletica la curiosità di un pubblico allargato, interessato non per forza al calcio, ma a una storia umana profondamente italiana, con i suoi pregi e i suoi difetti.
Non poteva esserci una figura migliore come Francesco Totti per raccontare il profilo di un calciatore con i suoi dubbi e contraddizioni, pur nella sua grandezza: «È stato qualche cosa di più del grande campione e basta: il fatto che abbia giocato per la Roma per tutta la carriera è stato il fattore distintivo. Ci sono state altre bandiere nel calcio italiano, come Del Piero o Maldini, ma giocavano in club che vincevano, e tanto; Totti ha rinunciato a vincere campionati o Champions, anche se per gran parte della sua carriera sarebbe potuto andare ovunque. Però, frequentandolo per un anno, ho capito pienamente quando dicono che uno scudetto a Roma ne vale dieci rispetto a uno a Milano oppure a Torino. E sono abbastanza d’accordo».