Lorenzo Insigne, talento e incertezza

A quasi trent'anni, è riuscito finalmente a diventare un giocatore insostituibile per il Napoli e per l'Italia. Ma qual è la sua reale dimensione sul palcoscenico internazionale?

Tra Insigne e la Nazionale c’è stato, fin qui, un rapporto di sottrazione. La partita per cui Lorenzo è rimasto impresso nella memoria come giocatore dell’Italia è, paradossalmente o forse no, una partita che Insigne non ha giocato. Quell’Italia-Svezia che sarà ricordata come la Corea calcistica del terzo millennio. Quella sera, il 13 novembre 2017, Ventura schierò titolare Gabbiadini e Insigne rimase tristemente in panchina ad assistere all’incontro che gli avrebbe impedito di partecipare a quelli che sarebbero stati i suoi primi, veri Mondiali. Perché la mezz’ora abbondante che Prandelli gli concesse nel 2014 contro il Costa Rica (altra sconfitta memorabile) è per appassionati di almanacchi. Lorenzo, in quel Mondiale, non lasciò il segno. Così come fece la comparsa – tre scorci di partita – agli Europei del 2016, con Conte in panchina.

È un rapporto di sottrazione. Definirlo tormentato non si può, sarebbe eccessivo. Sì, è lungo il capitolo dei contrasti tra i numeri 10 e la maglia dell’Italia. Ma il percorso di Insigne non è paragonabile ai tornanti di Rivera con la sua staffetta, di Zola con quel rigore sbagliato contro la Germania a Euro 96, dello stesso Baggio, fino a Del Piero e a Totti con i suoi cucchiai, gli sputi, le espulsioni e la Coppa del Mondo sollevata al cielo di Berlino, proprio insieme a Del Piero. Si può pensare che tra Insigne e la Nazionale ci sia un rapporto di timidezza, un po’ come si conviene ai calciatori contemporanei, fin troppo educati, obbedienti, irreggimentati. Definirlo un non-rapporto, forse, sarebbe troppo. Però sfuggente si può dire. Eppure le presenze sono quaranta, non pochissime. Non stiamo parlando di un atleta di passaggio. Stiamo parlando, questo sì, di un calciatore con cui e per cui la passione nazionale – quella inebriante, travolgente in tutta la Penisola – non è mai scoccata. Eppure l’esordio risale all’11 settembre 2012, contro Malta. E alla seconda presenza, un anno dopo, arrivò persino il gol contro l’Argentina, con una prestazione da applausi. Sembrava un inizio da predestinati. Sembrava. Un altro gol importante, poi, lo segnò a Wembley, sia pure su rigore, contro l’Inghilterra. In totale sono stati fin qui sei.

In effetti Insigne è tipo da inizi folgoranti. Ne fu protagonista anche a Napoli. Sempre nel 2013. Al San Paolo, serata di Champions contro i vicecampioni d’Europa del Borussia Dortmund con in panchina Jūrgen Klopp. Su quella azzurra sedeva Rafa Benítez. Lorenzo calciò una punizione da favola che andò a morire all’incrocio dei pali e il portiere avversario, l’australiano Langerak, ci rimise due denti nel disperato tentativo di fermare il pallone. In Champions, Insigne ha segnato dodici volte. Una al Santiago Bernabéu.

Dopo questo inizio, però, anche nel Napoli ci ha messo tempo prima di sentirsi l’uomo al centro del progetto tecnico. Ha attraversato l’adattamento a un ruolo di sacrificio, con Benítez appunto, poi la rottura dei legamenti del ginocchio, l’iniziale diffidenza di Sarri nei suoi confronti (non è un mistero che, prima di convertirsi al 4-3-3, il tecnico di Figline avrebbe voluto Saponara per il suo 4-3-1-2 ). Poi, il tripudio tecnico-tattico, l’esaltazione in quella che è diventata la sua mattonella, il tridente, l’intesa a memoria con Mertens e Callejon, lo scudetto sfiorato. Per poi essere di nuovo messo in discussione con Ancelotti, che aveva un’altra idea di calcio e provò invano ad avvicinarlo alla porta, a dividerlo dalla sua coperta di Linus: cominciò ancora una volta benissimo, con il gol vincente al Liverpool (ancora Klopp sconfitto a Napoli), proseguì lungo la via della reciproca incomprensione e finì con una misteriosa indisposizione che non gli consentì di seguire la squadra sempre ad Anfield, sempre in Champions. In mezzo, un rapporto toccata e fuga con Mino Raiola che, forse non a caso, si allontana sempre rapidamente quando capisce che l’economia di mercato sta procedendo in un’altra direzione, lasciando un brusio di fondo tra sé e il pubblico di Napoli.

Adesso per Insigne la storia è cambiata. Oggi Lorenzo si presenta finanche in modo inedito: ha due allenatori che lo considerano centrale per la loro idea di calcio, sia Mancini sia Gattuso gli hanno tagliato su misura un ruolo decisivo per lo sviluppo di gioco della Nazionale e del Napoli. E soltanto l’inclinazione personale di ciascun appassionato può interpretare queste scelte o come la tardiva consacrazione di un talento che ha faticato fin troppo a essere riconosciuto, oppure come il riflesso di uno sbiadimento delle due formazioni e più in generale del calcio italiano. Che non gioca una gara a eliminazione diretta ai Mondiali dal 2006, e che ai quarti di finale delle coppe europee 2020/21 ha solo una squadra (la Roma) ancora in corsa.

Nelle ultime due Nazionali che hanno lasciato un segno – quella che vinse proprio i Mondiali 2006 e quella che perse la finale agli Europei nel 2012 – gli uomini chiave si chiamavano Buffon, Cannavaro, Pirlo, Cassano, Balotelli. Non ce ne vogliano gli estimatori di Lorenzo, ma siamo su livelli diversi: per alcuni parliamo di grandi picchi, forse anche isolati, per altri parliamo sia di picchi sia di continuità di rendimento. Un ragionamento che vale anche per il Napoli: tre anni fa, sfiorò con le unghie lo scudetto; poi ha giocato alla pari con le grandi d’Europa, e adesso sta strenuamente lottando per un posto in Champions. Dopo essere stato buttato fuori in Europa League dal Granada. Il piano inclinato è lì, basta osservarlo.

Lorenzo Insigne ha esordito in gare ufficiali con il Napoli nella stagione 2009/10; dopo tre esperienze in prestito (Cavese, Foggia, Pescara), è stato inserito in prima squadra alla vigilia dell’annata 2013/2014; il suo score totale con la maglia azzurra è di 103 reti in 384 partite di tutte le competizioni (Francesco Pecoraro/Getty Images)

Fatto sta che, a quasi trent’anni (li compirà il 4 giugno), Insigne è davanti ai mesi più importanti della sua carriera. È in scadenza di contratto nel 2022 e il Napoli dovrà decidere che tipo di rinnovo – e di ruolo – offrirgli per il futuro. Ma soprattutto giocherà gli Europei con la maglia numero 10 sulle spalle. Mancini lo ha definito fondamentale per il gioco dell’Italia. Per Insigne, il ct terrà in panchina un certo Zaniolo. Non ci saranno più vie di fuga. Dall’Europeo potrà uscire come calciatore fondamentale, oppure come un giocatore bravo ma… – e ciascuno può completare questo spazio come preferisce. Alla fine sarà un talento tipicamente italiano, che ha avuto bisogno di troppo tempo per maturare definitivamente, oppure un eterno incompiuto.

Ci sarebbe poi una terza via che però è decisamente poco di moda nel nostro Paese: riconoscere che stiamo parlando di un buon calciatore, forte tecnicamente, penalizzato dal fisico e da una certa riluttanza a mettersi in gioco, che ha avuto la carriera che ha meritato, e che ha scelto di viverla nella mattonella che si è scelto. Non sempre ci sono rose che non sono state colte. Ci sono anche bei fiori – alcuni bellissimi, altri meno – che vanno accettati e ammirati per quelli che sono.