C’è un dettaglio, marginale solo all’apparenza, che mi colpisce ogni volta che riguardo quel gol di Agüero contro il QPR. Un dettaglio che fa tutta la differenza del mondo tra la vittoria e la sconfitta, tra vivere e morire, calcisticamente parlando: è il tocco con cui il Kun ritarda la conclusione quel tanto che basta per vanificare l’intervento in scivolata di Onuoha e mettersi nella condizione di calciare praticamente a botta sicura. In quel momento – della partita, della stagione, probabilmente della carriera – qualsiasi altro giocatore, anzi qualsiasi altro attaccante, avrebbe chiuso gli occhi e calciato con tutta la brutalità che le residue energie gli avrebbero concesso, facendo finire il pallone sul piede o sulla gamba del difensore avversario e consegnando ad Alex Ferguson un titolo che sembrava perso, poi sembrava vinto, poi ancora perso, in un’altalena di emozioni mai vista in Premier League. Agüero no, Agüero ha avuto la lucidità di aspettare, la forza di aspettare, di fare un tocco in più in un calcio che ne richiedeva già uno in meno, di trovare il modo più sicuro per segnare la rete su cui edificare una nuova legacy individuale e collettiva: «Un gol all’ultimo minuto per vincere un campionato contro i rivali di sempre che giocano nella stessa città. Non so quante altre volte potrà accadere», dirà anni dopo al The Sun.
C’è, però, un significato ulteriore, che trascende la visione del gol come manifestazione del senso ultimo di superiorità all’interno della competizione sportiva. A cambiare, in quell’attimo, non è stato solo il risultato di una partita o la classifica finale della Premier League, ma la storia stessa del Manchester City, il modo in cui sarebbe stato visto, percepito e raccontato negli anni che avrebbero seguito quell’istantanea talmente perfetta da sembrare l’unica conclusione possibile di un copione studiato a tavolino. La gloria, il retaggio, la nobiltà di squadre come Bayern Monaco, Real Madrid, Barcellona, Manchester United, sono arrivati a noi grazie alle testimonianze di chi c’era, ai racconti orali e scritti di un calcio a volte troppo lontano per essere vero; e noi non abbiamo potuto far altro che accettare tutto questo aprioristicamente, dare tutto per buono, perché in fondo non avremmo potuto fare altro, se non immaginare quando e come quella grandezza era stata conquistata. Con il Manchester City, con Agüero, non è stato necessario immaginare: l’abbiamo visto, l’abbiamo vissuto, avevamo sentito Martin Tyler di Sky Sport UK urlare «Agueroooooo» in modo che, per qualche istante, la sua telecronaca sovrastasse il boato del City of Manchester. Il City cambiava il suo destino, diventava un grande club nel senso letterale del termine. E noi eravamo lì, testimoni di una storia e della storia, senza la necessità che qualcuno ci raccontasse l’una e l’altra: «Nell’attimo in cui tutto si riduceva a un ultimo tiro in porta, Agüero non ha mai dubitato di se stesso. E questo ha significato tutto per un club che era diventato sinonimo di fallimento, per cui se c’era qualcosa che sarebbe potuta andare male di solito lo faceva. Quella partita è stata lo spartiacque tra quel City e il City di oggi» ha scritto Jonathan Wilson sul Guardian.
Per questo non è un caso, non può esserlo, che di quella squadra Agüero sia l’unico e l’ultimo superstite: se il Manchester City di oggi è figlio del Manchester City di ieri, nessuno meglio di lui avrebbe potuto ricordare a tutti quelli che sono arrivati dopo l’importanza del cambiamento, del passaggio a una nuova dimensione, di come ci si trasforma. Il Manchester City era un insieme disorganico di costose individualità e oggi è un collettivo con storia, tradizione, credibilità. Da Mancini a Guardiola, passando per Pellegrini, Agüero è stato uomo e oggetto di transizione, un trait d’union perfetto e necessario per una realtà tendente al nichilismo e all’autolesionismo, come se orizzonti e prospettive diverse fossero preclusi a prescindere, quasi per diritto o obbligo di nascita. È stato così fino al minuto 93 e 20 dell’ultima giornata del campionato 2011/2012, l’attimo che cambia la storia. «Tutto ciò che ricordo dopo il fischio finale è l’invasione di campo e la gente che mi abbracciava e mi sussurrava “ti amo” all’orecchio», ha detto il Kun.
Il gol al QPR, peraltro molto simile a tanti altri segnati in una carriera da record con il City – 257 in 383 partite complessive, 181 solo in Premier League, quarto realizzatore ogni epoca nella storia della competizione, primo tra gli stranieri – costituisce il manifesto calcistico di Agüero, il modo in cui interpreta il gioco prima ancora di giocarlo. Parliamo del primo “centravanti tascabile” dell’era moderna, da intendersi non come falso nueve in stile Messi, ma come giocatore dalle dimensioni ridotte (1,70 per 70 kg o poco più) che ha cambiato il paradigma del ruolo, che è riuscito a farlo in un contesto che era ancora troppo legato a un ideale di prima punta come attaccante fisico e statico che era ormai superato dal mondo e dal tempo. Agüero ha cambiato questo modo di pensare cambiando a sua volta, trasformandosi da talentuoso esterno offensivo in una prima punta letale, essenziale, persino minimalista per il modo in cui riesce a piegare ogni singolo gesto tecnico alla logica finale del gol.
Se dovessimo cercare un termine di paragone, Romário sarebbe il riferimento più credibile e immediato, per via della comune capacità di semplificarsi la vita anche nelle situazioni più complicate, di tradurre tutto in funzione di un solo obiettivo, ovvero trovarsi nella miglior congiuntura spazio-temporale per battere a rete, non importa come, non importa contro chi. Si può dire che, come Romário, Agüero abbia con il gol quel rapporto di immediatezza e reciprocità tipico di chi, sul campo, sa fare una sola cosa, solo che sa farla meglio di tutti. Basta guardare una delle tante compilation presenti su YouTube per rendersene conto: nei suoi gol, Agūero celebra l’importanza del controllo orientato e del piede perno per aggirare il marcatore diretto, la contro-intuitività del tocco di punta o d’esterno, l’abilità nel trovare lo spazio per calciare anche a difesa schierata, la fisicità intesa come capacità di frapporsi tra il difensore e la palla in modo da guadagnare quel vantaggio che non può avere in termini di chili e centimetri. Dal punto di vista tecnico ed estetico non esiste un gol-copertina, un gol che ci faccia pensare ad Agüero in un nanosecondo; non esiste, per intenderci, una rovesciata alla Cristiano Ronaldo o una replica del “gol del siglo” alla Messi. Però esistono tanti gol sempre uguali, persino noiosi nella ciclica ripetitività con cui banalizzano ciò che accade negli ultimi sedici metri, rendendo soluzioni più ricercate ma altrettanto efficaci un inutile esercizio di stile riservato a chi ha tempo da perdere.
Potete fermare la riproduzione di questo video alla posizione numero due, non c’è bisogno di andare avanti per sapere quale gol occupa la prima posizione
Nell’epoca in cui cerchiamo di raccontare il calcio per ciò che è, ovvero un fenomeno più complesso di quel che appare agli occhi del tifoso, Agüero riconduce tutto all’idea semplice e ancestrale per cui vince chi segna un gol in più, per cui vince chi può contare su qualcuno che vive per l’istante in cui la tattica, la tecnica e la filosofia devono trovare forma e concretezza. Agüero non è il prototipo del centravanti moderno, non è un calciatore associativo o dalla dimensione creativa particolarmente sviluppata, eppure è stato per anni la prima opzione offensiva di una squadra di Guardiola, dimostrando di possedere tutta l’intelligenza adattiva necessaria per diventarlo, cambiando tutto ciò che era necessario cambiare per diventare un giocatore migliore, un finalizzatore migliore, un Agüero migliore.
Mentre cambiava, Agüero stava cambiando la storia di chi, dieci anni fa, decise di fare di lui la pietra angolare di un progetto che voleva andare oltre un campionato vinto all’ultima giornata. E che ci è riuscito partendo proprio da lì. «L’apporto di Sergio alla storia del Manchester City non è quantificabile. La sua leggenda resterà indelebile nei cuori di tutti coloro che amano il club e forse anche di quelli che, semplicemente, amano il calcio» ha detto il presidente Khaldoon Al Mubarak nel comunicato che annunciava il mancato rinnovo del contratto in scadenza a giugno, ma anche la costruzione di una statua del Kun all’ingresso dell’Etihad Stadium e il proposito di «offrirgli l’opportunità di un addio appropriato». Magari Agüero vorrebbe finire la sua storia al Manchester City con un ultimo gol, magari nella finale di Champions League, quel torneo diventato un obiettivo possibile nel momento stesso in cui Paddy Kenny del QPR si vide superato dal tiro di Agüero che non poteva mai uscire, mentre Martin Tyler di Sky Sport UK urlava «Agueroooooo» consegnando quell’istante all’immortalità sportiva e mediatica. Tutto era iniziato lì, tutto era iniziato con Agüero e grazie ad Agüero. Che il cerchio si possa chiudere con lui sarebbe nella natura delle cose. Proprio come un gol.