Perché Vincenzo Italiano merita già di allenare una grande squadra

Non è questione di bel gioco, ma di risultati: il suo Spezia è arrivato per la prima volta in Serie A, in questo momento sarebbe salvo e sta sviluppando il talento di diversi giocatori.

Nel discorso sugli allenatori di calcio ad alto livello, un discorso fatto soprattutto di facili etichettamenti e stucchevoli contrapposizioni, viene spesso ignorato un aspetto fondamentale: tutti gli allenatori che vengono definiti giochisti, nessuno escluso, hanno ottenuto grandi risultati in una o più tappe della loro carriera. Altrimenti non sarebbero arrivati in Serie A, non sarebbero stati notati, non sarebbero diventati famosi. Sacchi e Zeman, per esempio, hanno fatto cose meravigliose a Parma e a Foggia prima di essere assunti dal Milan e dalla Lazio; Sarri e De Zerbi sono andati al di là di tutte le aspettative con l’Empoli, con il Foggia e anche con altri club, prima di affermarsi in Serie A; Guardiola ha vinto il campionato di Tercera División col Barcellona B, Klopp ha portato il Mainz in Coppa Uefa. Si potrebbe andare avanti per ore, le eccezioni sono davvero poche e quindi non alterano i fatti, non modificano la realtà: non ha alcun senso parlare di giochisti, perché i risultati sono necessari, sono il centro di ogni cosa, sono l’unico concime che permette agli allenatori di coltivare il proprio orto. Sono i numeri a comandare, niente di diverso dalle percentuali di share per uno show in prime time considerato rivoluzionario dai critici o anche dai suoi stessi autori, dai dati di vendita per nuova zuppa surgelata ideata da uno chef stellato.

Quando si scrive o si parla di Vincenzo Italiano, il concetto più ricorrente è quello del bel gioco. Sì, il tecnico dello Spezia è un giochista, o meglio viene considerato così, come parte di questa setta rivoluzionaria che in realtà non esiste. Lo stesso curriculum di Italiano dimostra come questa appartenenza sia una pura invenzione: da quando è diventato allenatore professionista, cioè dal 2016, ha vinto i playoff di Serie D con l’Arzignano Valchiampo, ha ottenuto la promozione in Serie B con il Trapani e poi quella in Serie A con lo Spezia. Questi sono risultati veri, risultati importanti, anche storici in alcuni casi – lo Spezia, per esempio, non era mai riuscito a raggiungere il massimo campionato. Come se non bastasse, la squadra ligure è stata fuori dalla zona retrocessione praticamente per tutta la stagione, e in questo momento sarebbe salva. Inoltre, nell’ultimo break internazionale, quello appena concluso, lo Spezia ha fornito cinque giocatori a una rappresentativa maggiore e altri sette a una selezione giovanile – tre di questi, ovvero Marchizza, Maggiore e Pobega, erano nella rosa dell’Italia Under 21 che ha superato la fase a girone degli Europei di categoria.

Come si può parlare solo di bel gioco quando ci sono certi riscontri? Forse succede perché nella semplificazione semantica, una patologia tipica del racconto calcistico, si fa confusione tra bel gioco identità di gioco, vale a dire quell’insieme di principi che permette a una determinata squadra, indipendentemente dal suo blasone, dalla sua qualità, dalla forza dei suoi avversari, di mantenere sempre lo stesso approccio tattico, di attuare sempre gli stessi automatismi, senza snaturarsi, senza rinunciare a priori alla possibilità di autodeterminare il proprio destino in campo. Per Italiano, questa è la regola: «Se vuoi ottenere qualche risultato», ha detto in un’intervista al Corriere dello Sport, «non puoi non giocare bene. E giocare bene significa tutta un serie di cose: stare attenti a entrambe le fasi, aggredire le partite, proporre qualcosa. Quando speculi, soprattutto se sei lo Spezia, di partite ne vinci pochine. Se hai qualche idea, invece, puoi mettere in difficoltà chiunque. Ma alla fine ciò che conta è solo la posizione che si occupa a fine campionato».

Il fine è lo stesso: vincere le partite. Solo che il mezzo è il messaggio, per dirla con le parole di Marshall McLuhan. E il messaggio dello Spezia, quindi di Vincenzo Italiano, è che tutte le squadre possono essere ambiziose per non dire presuntuose, possono provare a controllare il flusso e i ritmi e l’esito del gioco per un’intera partita, per tutte le partite, contro qualsiasi avversario, nonostante il valore complessivo dei giocatori sia appena superiore a 60 milioni di euro secondo i dati di Transfermarkt – quella dello Spezia è la 18esima rosa della Serie A per valutazione complessiva, dieci volte inferiore rispetto a quelle di Juventus e Inter. In realtà, il vero messaggio di Italiano è che questa presunzione di controllo può anche essere disattesa, certo, ma nel frattempo porta i giocatori a sviluppare il proprio potenziale: sempre secondo gli algoritmi di Transfermarkt, il valore di mercato di tutti i giocatori dello Spezia è cresciuto del 29% da ottobre a oggi, la seconda miglior progressione dell’intero campionato dopo quella del Verona (+42%); dalla fine del mercato invernale, c’è stato un ulteriore incremento del 10%.

Con il suo calcio, dunque, Vincenzo Italiano crea valore. Un valore tecnico che diventa valore economico. Forse è un po’ esagerato pensare che la nuova proprietà americana – guidata da Robert Platek, uomo e finanziere di fiducia di di Michael Dell, fondatore della multinazionale produttrice di computer – abbia rilevato il 100% delle quote dello Spezia da Gabriele Volpi perché è stata attratta dal lavoro dell’allenatore. Ma di certo un investimento nella società ligure è diventata un’operazione (ancora più) appetibile grazie all’approdo in Serie A, alla valorizzazione del parco giocatori, alle prospettive di crescita di una rosa con un’età media di 26,1 anni (la terza più bassa dell’intero campionato) e un monte ingaggi di poco superiore ai 22 milioni di euro. Anche questi sono risultati. Anzi, forse sono risultati che valgono ancora più della classifica. Per un motivo semplice: sarebbero buonissimi comunque, e diventano eccellenti se parametrati alla realtà.

Vincenzo Italiano è nato a Karlsruhe, in Germania, il 10 dicembre nel 1977; torna in Italia pochi mesi dopo la sua nascita, e cresce calcisticamente nel Ribera, la squadra del suo paese d’origine, in provincia di Agrigento; da professionista, il club a cui è più legato è senza dubio il Verona, con cui milita dal 1996 al gennaio 2005 e poi di nuovo dall’estate 2005 al 2007 (Valerio Pennicino/Getty Images)

Esattamente com’è avvenuto in passato a Sacchi e Zeman, a Sarri e De Zerbi e a tantissimi altri allenatori, Vincenzo Italiano si è guadagnato un credito enorme, ha conquistato uno status. E nel frattempo ha fatto lo stesso con lo Spezia, cioè ha costruito un progetto vincente partendo da ciò che poteva avere, rispettando le dimensioni storiche ed economiche del club, per poi renderle più floride. Un’ascesa in parallelo, fondata sulla certezza delle idee: «Per me senza organizzazione non vai da nessuna parte, ed è un discorso che vale nella vita e nel calcio. Mi giuravano che vincere in Serie D senza cambiare a ogni partita era impossibile, e invece ad Arzignano ci siamo riusciti. In C, quando ero al Trapani, dicevano la stessa cosa. In B come sopra, e lo Spezia è stato promosso contro ogni previsione. Ora che sto lavorando allo stesso modo anche in Serie A posso dire che avevo ragione».

Da anni, uno dei mantra critici interni al calcio italiano riguarda la scarsa lungimiranza dei club, l’incapacità di costruire e portare avanti progetti pluriennali senza stravolgere tutto quando i risultati non arrivano, o non arrivano subito. È una visione parziale della realtà: dal campo, ovvero dai giocatori e dagli allenatori, arrivano da tempo impulsi sempre più strutturati e convincenti, e allora le società – come lo Spezia – si stanno finalmente adeguando. Vincenzo Italiano, in virtù dei suoi successi in serie e del suo messaggio, appartiene a questo gruppo di innovatori, di riformisti, non tanto e non solo dal punto di vista tattico, ma anche come cultura del gioco, del puro business calcistico. È un allenatore moderno, contemporaneo, al servizio della sua società, non del suo stesso mito. E allora merita di essere celebrato, di avere subito un’opportunità alla guida di una squadra importante. Non c’è motivo di aspettare, o di dubitare, quando a parlare sono i risultati.