Speravo de morì prima è un racconto sulla fine dell’adolescenza

Nella serie Sky, il ritiro e l'icona di Totti sono centrali, ma solo fino a un certo punto.

Il limite più grande, almeno in partenza, di Speravo de morì prima – la serie di Sky sull’addio al calcio di Francesco Totti, sei episodi di cui è appena terminata la messa in onda – era la prossimità temporale fra i fatti raccontati e la realtà. L’ex capitano della Roma (Pietro Castellitto) come icona, la sua «fine», la storia d’amore e famiglia fra quartieri popolari e tv con Ilary Blasi (Greta Scarano), il rapporto col tecnico Luciano Spalletti (Gianmarco Tognazzi), prima amico e quindi poi perfetto villain, comunque oltre la semplice relazione professionale, sono argomenti pop per eccellenza; e per questo, il rischio dell’effetto-imitazione, in un biopic su un tema non ancora metabolizzato dalla narrazione comune, non “storicizzato”, c’era ed è rimasto dopo il primo impatto con lo show, anche al netto delle prove degli attori, in bilico fra riprodurre e indagare più nell’intimo dei personaggi, al di dà delle semplificazioni.

Ma ecco: accantonato ogni slancio documentaristico tipico del Mi chiamo Francesco Totti di Alex Infascelli, questa lettura dell’autobiografia scritta con Paolo Condò, Un capitano, con regia di Luca Ribuoli (già in La mafia uccide solo d’estete come in fiction in prima serata su Rai 1), richiede di accettare le regole del gioco proprie di una morbida finzione, superare lo straniamento e lasciarsi trasportare in una commedia all’italiana malinconica e disimpegnata. Che, al di là del rito che sui social ne ha accompagnato il lancio e del dibattito sulla somiglianza fra attori e personaggi reali, non è un tributo esplicito a Totti, ma una favola sulla fine tardiva dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta rappresentata attraverso il ritiro dal calcio giocato, da parte di chi fino all’ultimo aveva mostrato allergia solo all’idea di rinunciare.

La trama è semplice, volutamente senza colpi di scena, e procede per elementi essenziali: in un arco temporale che va dal ritorno di Spalletti alla Roma (gennaio 2016) all’iconico 28 maggio dell’anno successivo, mescola qualche flashback su infanzia, vita di famiglia, 2001 e l’incontro con Ilary Blasi; ma nel riassunto degli eventi, così come nella geografia dei personaggi, non si esce mai dallo stretto necessario al racconto dell’ultima stagione – tanto che persino De Rossi e Nainggolan sono poco più che comparse. Al contrario, la voce fuoricampo di Castellitto ci guida dentro una sorta di flusso di coscienza in slalom fra pochissimi comprimari – oltre ai genitori, ci sono Roma e le sue radio e soprattutto uno sboccato Cassano, stile voce della coscienza – e il contrasto con quell’unico, grande nemico a orientare alla narrazione. Evitando, persino, le scene di gioco: comunque distillate al minimo, sono recuperate e montate da filmati di repertorio e mai effettivamente girate, evitando un secondo effetto straniante (al cinema, si sa, il calcio ancora non viene trasposto in maniera adeguata, e non era questa l’occasione per azzardare) e ponendo lo sport come semplice sfondo alle vicende umane dei protagonisti.

Che vengono raccontate in maniera famigliare al cinema italiano disimpegnato e un po’ amaro che allo sport drama, con un’ironia surreale e a volte poco spigliata a combaciare coi toni del racconto in prima persona che ci potrebbe aspettare dal protagonista. Da un lato, infatti, ci sono intermezzi onirici, buffi nella loro assurdità (gli esami di autocoscienza con Cassano, la solennità di Marcello Lippi, il “tormentone”, quella Piccolo uomo “suonata” alla festa dei quarant’anni), in cui è evidente l’intervento alla sceneggiatura di Stefano Bises, già con Paolo Sorrentino in The New Pope e qui a replicare i scala naïf alcuni passaggi tipici del regista. Dall’altra, c’è l’umorismo romano e operaio dello stesso Totti, sempre pronto a riportare tutti sulla terra con una battuta, o a divincolarsi nella popolarità «di un re» con la goffaggine che gli viene attribuita nell’immaginario comune.

In questo senso, i tre attori principali sono riusciti in un lavoro che va oltre la narrazione dei fatti – comunque unidirezionale – del libro, con Speravo de morì prima che allinea i proprio pianeti (lo sport, l’incoscienza, gli affetti, la comicità malinconica più che amara) al racconto dello scorrere del tempo. Allora ecco Castellitto che veste un Totti sprovveduto di fronte alle conseguenze, comunque buono, sinceramente ostinato e ingenuo, convinto di essere necessario alla squadra nonostante sconti un’età proibitiva per qualsiasi collega. Cullato da un ambiente che l’ha sempre protetto e cresciuto come eterno adolescente, lui, ora non è capace di riconoscere la fine e guardare al futuro, nemmeno quando è la moglie stessa – Scarano, qui, rimarca affinità e differenze nella coppia – a spiegargli, scontate le esperienze in tv, quanti passi indietro richieda il mondo “dei grandi”.

E poi, soprattutto, lo Spalletti di Tognazzi, “cattivo” atipico di cui la serie dà un’immagine più complessa di quella (ingenerosa?) di Un capitano. In questo ritratto ci sono frustrazioni, tic nervosi, difficoltà nel gestire le pressioni e l’ostilità della piazza, oltre a una mistica rassegnazione agli eventi stessi della vita. Sembra quasi di trovarsi davanti un Totti del futuro, emblema di una certa, sofferta maturità: disilluso ma attaccato con orgoglio al proprio lavoro, convinto delle proprie idee eppure reduce da delusioni e tradimenti. Rappresentando, in sintesi, ciò che il protagonista – venerato e protetto oltre i risultati, al contrario del tecnico – non ha ancora accarezzato.

Gli presenta il conto lui, che se proprio gli invidia qualcosa, più che della popolarità si tratta dell’incoscienza, della giovinezza fuori tempo massimo che si è potuto permettere. E quindi sempre Totti e Spalletti, fino all’ultimo, sì. Ma Speravo de morì prima non è solo una storia di sport.