Nessuno sport è leggendario come la boxe

La sua mistica resiste al tempo che passa, perché racconta uno dei pochi appigli che ci sono rimasti: il nostro corpo.

«La boxe», dice coach Eddie ‘Scrap-Iron’ Dupris in una scena di Million Dollar Baby, «è qualcosa di innaturale, perché si fa sempre tutto al contrario. Invece di allontanarti dal dolore, come farebbe qualunque persona sana… gli vai incontro». Sta tutta qui la mistica di questo sport. L’aura che avvolge i suoi campioni. Un’epica quasi ancestrale, che rimanda ai cluster più classici della letteratura e del cinema. Un concentrato di abisso e redenzione, di coraggio e sacrificio. Nessuno sport più della boxe ha generato personaggi tanto leggendari quanto imperfetti. Non esistono altri esempi. Forse il calcio, qualcosa il basket. Ma non c’è nulla di più romanzesco, prodigioso e avventuroso del pugilato.

La scomparsa di Marvin Hagler, secondo cui la boxe serviva a riparare i conti della vita, ha riportato alla luce questa magia, negli ultimi tempi un po’ offuscata. L’ex campione dei pesi medi è stato un gigante. Quasi un’icona in cui tutto era perfetto: tecnica, forza, strategia e perfino fisionomia. La sua testa rasata, il corpo muscoloso e lucido, gli occhi sottili lo hanno reso alla stregua di un personaggio della Marvel, un uomo invincibile, perché invincibile lo è stato davvero nel corso della sua carriera. Di Hagler oggi ci restano le foto e le immagini un po’ sgranate dei suoi combattimenti degli anni Ottanta. Ma cosa rende i personaggi di questo sport figure mitiche? Qualcuno ha detto che poche cose, a parte l’amore tra un uomo e una donna, sono intense e incontaminate quanto due che si prendono a pugni. Il senso è semplice: la boxe è un compendio della nostra umanità, un paradigma del vivere umano. Chi crede sia solo attrazione verso la brutalità si sbaglia. C’è molto di più.

Lo scrittore Jacques Henric nel suo Boxe, con cui ha vinto nel 2017 il premio Médicis, parla di questo. Ripercorre la storia del pugilato e cerca di fare luce sul perché sia considerato Noble Art. Scava fino alle viscere della questione e spiega cosa ci sia di artistico e di nobile in un rituale che inizia con le intimidazioni e le offese della cerimonia del peso, prosegue con i colpi di violenza inaudita sferrati nell’arena e si conclude alla fine dell’incontro, quando il vincitore tira su l’avversario e lo prende tra le sue braccia con affetto e riconoscenza. La boxe, insomma, regola uno degli elementi più preponderanti del nostro vivere quotidiano: la violenza. La ordina, ispirandosi a un residuo di cavalleria riciclato nelle 16 regole del Marchese di Queensberry nel 1865, dove il KO mette un freno al caos. Ci si picchia, è vero, ma con i guanti. E i protagonisti, alla fine, ci parlano di noi. Perché l’essenza di questo sport è rischiare tutto per realizzare un sogno che nessuno attorno a noi vede ad eccezione di noi stessi.

«Preferirei di gran lunga essere campione del mondo dei pesi massimi che re d’Inghilterra, presidente degli Stati Uniti o Kaiser di Germania», diceva Jack London. E spesso questi campioni sono personaggi davvero unici. Figure romanzesche sempre sopra le righe, strafottenti, spacconi e con un passato di povertà ed emarginazione. Ci sono afroamericani, italoamericani, irlandesi, latinos, filippini e cubani. Il loro è quasi sempre un viaggio nella redenzione che li porta dall’essere reietti a simboli di riscatto. L’elenco è infinito e coinvolge politica, diritti civili, storia, musica. Joe Louis, figlio di un padre indiano cherokee e di una madre nera, è stato campione dei massimi tra il 1937 e il 1949. Nell’estate del 1938, quando l’Europa è a un passo dalla guerra e la Germania è dominata da Hitler, sconfigge il tedesco Max Schmeling diventando simbolo della vittoria delle democrazie sul nazismo. Muhammad Ali ha provato a cambiare l’America dall’interno, ha sfruttato la sua popolarità per difendere valori sociali, politici e religiosi. «Dentro un ring o fuori non c’è niente di male a cadere», diceva, «è sbagliato rimanere a terra». Una frase che poi è il significato intrinseco del pugilato. Un’introspezione continua nel riconoscere i propri limiti e superarli. Combattere non è solo un’azione fisica ma una reazione psicologica contro le avversità.

Marcel Cerdan è stato il più grande pugile francese. Nato da una poverissima famiglia di pieds-noirs, il tormentato popolo europeo stanziatosi in Maghreb, ha iniziato a tirare pugni a otto anni. Diventa campione dei medi nel 1948. La sua storia sembra un romanzo dove il combattimento si mescola all’amore e alla tragedia. Sebbene sposato e padre di tre figli, si innamora perdutamente di Edith Piaf. Morirà a 33 anni in un incidente aereo alle Azzorre, ed Edith gli dedicherà l’ “Hymne à l’amour”. Floyd Mayweather Jr è stato invece uno dei pochissimi pugili che potrà raccontare ai nipotini di non aver mai perso un combattimento, diventando campione del mondo in cinque categorie diverse. E poi ci sono gli italiani. Tiberio Mitri, campione popolare e una vita bruciata, raccontava di aver vissuto per la boxe come un uomo per un ideale. E sottilizzava: «Non cercavo il lucro, mi bastava il guadagno». Sandro Mazzinghi ha confessato un giorno di aver combattuto per sconfiggere la fame e mantenere una promessa alla madre: «Ti farò regina». E così è stato. E poi, Nino Benvenuti, protagonista di leggendari sfide con Griffith, che ha scelto di entrare nel ring perché sentiva dentro di sé il fuoco che animava il padre al quale era stato impedito di combattere.

Ma se la boxe è ancora oggi un qualcosa diverso da tutto il resto, se l’epica dei suoi protagonisti resiste, nonostante il correre veloce della nostra società, è perché racconta uno dei pochi appigli sicuri che ci sono rimasti: il nostro corpo. Che, in questo mondo digitalizzato, spesso si perde e si confonde. Il pugilato con le sue ferite, con i suoi occhi tumefatti, invece lo rimette al centro di tutto offrendoci una bussola a cui poterci appigliare. L’obiettivo è trovare un riferimento fisico in mezzo a un mare virtuale. Mike Tyson aveva riassunto questo concetto alla perfezione: «Il ring? E’ il posto più bello del mondo. Sai quello che ti può capitare». Là fuori è invece un mistero.