Le mille carriere di Leonardo de Araujo

Calciatore e poi allenatore, dirigente, commentatore: ha girato il mondo e l'ha fatto sempre a modo suo, con stile e intelligenza, e con un atteggiamento da antipatico vincente.

Come tutti quelli cresciuti tra il finire di un’epoca e l’inizio di un’altra (è un classe 1969), Leonardo Nascimento de Araujo è un uomo versatile: tocca esserlo per forza se vuoi capire come si sopravvive nello spazio stretto che c’è tra quello che è venuto in passato e quello che sarà in futuro. Leonardo ha sempre vissuto nell’attimo che precede, nel momento che prepara, nell’intuizione della rifinitura: da giocatore, l’assist era il suo posto al sole, il suo regno quel fazzoletto di campo che sta tra un avversario già evitato e l’altro che sta per intervenire. In campo, misurava il successo contando il numero di volte in cui riusciva a far cambiare lo stato delle cose, da quello precedente a quello successivo: al centro c’era sempre lui, con un’intuizione, un movimento, un passaggio, un gol. Vivere in quel momento della partita, in quel pezzetto di campo in cui ha vissuto Leonardo, significa accettare un presente che si ripete all’infinito: ogni volta che il pallone arriva a te, rivivi il momento in cui hai la possibilità di cambiare tutto e ricominci dal punto in cui ancora non hai cambiato niente.

Un calciatore vive la vita nella stessa maniera in cui gioca a pallone, anche quando i giorni del campo sono finiti e cominciano quelli della panchina, dell’ufficio, degli studi televisivi. Nelle sue tante carriere dopo il ritiro dal calcio giocato (allenatore, talent scout, uomo-immagine, direttore sportivo, commentatore televisivo), Leonardo ha sempre vissuto in quello spazio e in quel momento in cui tutto è frutto di una sua decisione, tutto è conseguenza di una sua scelta. Una responsabilità estrema e radicale che spiega gli andirivieni di Milano e Parigi, i cicli di assunzione-dimissioni-riassunzioni: resta in un posto finché è convinto che ogni cosa dipenda solo da lui. Come tutti i rifinitori, Leonardo è un perfezionista, quindi destinato all’insoddisfazione, perciò condannato all’incompletezza: non esiste né il luogo né il momento in cui le sue intenzioni si faranno realtà, i compromessi e le circostanze ridurranno sempre la sua idea di quel che va fatto a ciò che si può fare. Forse è per questo che solo il PSG potrebbe essere la sua eternità, definizione che usò per dare una dimensione alla sua storia milanista dopo le prime dimissioni: se c’è una squadra che oggi sembra capace di onnipotenza, calcistica ed economica, è proprio quella parigina. Come tutti i rifinitori, Leonardo è un illuso: ogni volta che il pallone gli arrivava tra i piedi, era convinto di poter fare la giocata perfetta e cambiare tutto; ogni volta che una società lo assume come dirigente, è convinto di poter fare il calciomercato perfetto e creare la squadra imbattibile. Come tutti i rifinitori, Leonardo è un permaloso: ogni pallone che non passa dai suoi piedi è un’offesa personale, ogni decisione sportiva che gli viene sottratta diventa una questione privata. Se la prende sempre e comunque, prima o poi se ne va, ma presto o tardi torna perché Leonardo è e resta un rifinitore, non ha tempo per rimuginare su quel che è stato perché gli interessa troppo quel che sarà.

Condannato all’incompletezza, si diceva. Una sensazione che si porta dietro da che ha cominciato a tirare calci al pallone: a 17 anni ancora lo chiamavano ratinho, topolino, tanto magro e piccolo che sembrava sempre mancargli un ultimo pezzo di crescita. Un’incompletezza del corpo che lo costringe a lavorare sul cervello, di cervello: ovviamente dentro il campo, dove fa il terzino sinistro talmente bene che la Juventus pensa a lui per consegnare finalmente l’eredità di Cabrini a un degno successore, ma poi diventa mezzala, centrocampista centrale, esterno offensivo, mezza punta. Anche fuori dal campo, senza il pallone tra i piedi, dimostra un’intelligenza innata e un’attitudine agli studi che moltiplicano le scelte a disposizione. La sua è una famiglia benestante di Niterói, che non smette mai di ricordargli che c’è il calcio ma esiste anche altro. Per un periodo pensa addirittura di mollare il pallone e fare contenti papà e mamma: si iscrive alla facoltà di ingegneria dell’università di Rio de Janeiro, ma poi il Flamengo gli fa sapere che c’è un posto per lui accanto a Zico, Müller, Silas, Andrade, Zinho, Edinho, Leandro, Bebeto, Jorginho. Lascia l’università, vince il suo primo campionato che ancora non è maggiorenne, da topolino viene promosso a Leo, che è diminutivo del suo nome ma anche abbreviazione di leone. La passione per i libri, per lo studio, per l’apprendimento, però, gli resta: «Il bello del calcio è anche questo: conoscere, scoprire, vivere ruoli ed esperienze», dice oggi quando gli si chiede di descrivere quel che gli piace del suo mondo. È questa la passione che lo porterà a imparare lo spagnolo quando andrà a giocare al Valencia, il giapponese (poco perché troppo difficile, confessa) quando accetterà di fare il padre fondatore della Japan Soccer League al Kashima Antlers, il francese quanto tornerà in Europa al PSG, l’italiano quando finalmente arriverà in Italia, l’inglese perché è la lingua del cosmopolita. «Io sono un cittadino del mondo, cittadino e viaggiatore» dirà nella conferenza stampa durante la quale si presenta per la prima volta ai tifosi milanisti.

Nel momento in cui arriva in Italia, Leonardo deve compiere 28 anni ma è già l’uomo che sarà per i successivi 24, quelli che lo hanno portato fino a oggi, fino a essere uno dei direttori sportivi più potenti, apprezzati e competenti del mondo, a capo dell’area tecnica di una società capace di muovere miliardi, di rompere equilibri, di cambiare le regole. Ha già vinto e perso tutto sia per i club che per la propria Nazionale. Condannato all’incompletezza, s’è detto: esiste una descrizione della parola più perfetta di una Coppa del Mondo vinta ma non vinta a causa di una gomitata a Tab Ramos nell’ottavo di finale contro gli Stati Uniti? Leonardo fa parte probabilmente dell’ultima generazione d’oro massiccio del calcio brasiliano, quella che vince il Mondiale nel ’94, arriva in finale nel ’98, si rifà a rivince nel 2002. Negli USA Leonardo vince ma solo grazie ai compagni, in Francia gioca e perde, nel 2002 è già un ex-giocatore, e infatti non viene convocato da Scolari.

Leonardo è un vanitoso. Nel 1997 si è lasciato convincere a traslocare a Milano dallo smielato “vuoi venire a fare la ciliegina?” dell’allora tecnico rossonero Fabio Capello, che così tanto desiderava quella raffinata guarnizione sul dolce di alta pasticceria che gli era stato cucinato quell’estate dagli chef Adriano Galliani e Ariedo Braida: Ibrahim Ba, Winston Bogarde, Edgar Davids, Patrick Kluivert, un Milan costruito per stravincere – che però arriverà decimo in campionato, a trenta punti di distanza dalla Juventus. In realtà le avances erano cominciate già anni prima: nel 1993 il San Paolo di Leonardo vince la Coppa Intercontinentale battendo proprio il Milan di Fabio Capello. Dopo la partita, Adriano Galliani se ne va da Tokyo sconsolato ma ringalluzzito dalla consapevolezza che dalla sconfitta in campo almeno è venuta la scoperta di un talento. Negli anni del corteggiamento si intuivano già le motivazioni del divorzio: «A Narciso tutto quello che non è specchio non piace», dirà in un’intervista alla Gazzetta dello Sport per spiegare le ragioni delle prime dimissioni milaniste. Ma Narciso chi è? Chi era? Berlusconi, Leonardo, entrambi? Il primo abituato al comando e all’ubbidienza, il secondo avvezzo alla seduzione e alla civetteria.

Nella sua carriera al Milan, durata dal 1997 al 2001 e poi per un breve periodo a cavallo tra il 2002 e il 2003, Leonardo ha accumulato 124 presenze in gare ufficiali e 30 gol segnati; ha vinto un solo titolo, lo scudetto del campionato 1998/99 con Zaccheroni in panchina (Claudio Villa /Allsport)

Leonardo è un orgoglioso, quindi un permaloso. Lascia quando intuisce di non essere più quello che tutti guardano quando nella stanza i presenti chiedono “chi è che comanda qui?”, torna quando pensa di poter dimostrare perché quella volta tutti avrebbero dovuto guardare lui. Si dimette lui prima che possano essere gli altri a mandarlo via, scelta che lo fa sempre tornare a quell’ampiezza delle possibilità concessagli sin da ragazzino dalla superiorità dell’intelletto. Lascia il Milan la prima volta e poi si ripresenta a Milano vestito di nerazzurro, e nella conferenza stampa di presentazione dice di aver scelto l’Inter perché con Massimo Moratti esiste un’affinità elettiva che va oltre il campo e oltre il calcio, una sintonia che sembra amicizia, a differenza di quanto scoperto con altri. Ovviamente anche in quel caso finirà con le dimissioni, ma si torna sempre allo stesso punto: non esiste né il luogo né il momento in cui le intenzioni di Leonardo si faranno realtà, perché le sue sono intenzioni di perfezione dell’agire e di assolutezza dell’indipendenza (cioè della responsabilità).

Leonardo è un uomo di grande intelligenza, cioè di infallibile memoria. Come tutti i perfezionisti, non conosce una sua perfezione ma custodisce il ricordo di quella che ha ammirato in altri ed è questa che aspira a imitare. Zico è stato prima idolo, poi maestro, infine esempio: è per seguire lui che Leonardo andò a giocare in Giappone (oltre che per guadagnare due miliardi di vecchie lire a stagione) e si ostinò ad arrivare in Italia. Da Mourinho si fece spiegare l’Inter per filo e per segno, ammettendo che nel momento in cui è passato sulla panchina nerazzurra non c’era modo di sfuggire all’onnipresenza del portoghese, a San Siro, alla Pinetina, nel dibattito calcistico, nell’immaginario collettivo. Ora che fa il direttore sportivo la memoria va ad Adriano Galliani, che gli ha permesso di imparare due mestieri nello stesso momento: quello di allenatore, lasciandogli fare ciò che voleva e dando persino un nome a ciò che stava facendo (il 4-2-fantasia), e quello di dirigente, permettendogli di stare accanto a lui e a Braida nei momenti formativi. Che Kakà e Thiago Silva siano arrivati al Milan unicamente grazie al fiuto di Leonardo è un mito che lui per primo si premura di sfatare ogni volta che gli si ripresenta davanti. Così come ci tiene a sottolineare di aver preso lui Pato e Lucas Paquetá, però.

Leonardo è un uomo del suo tempo, che vuol dire del nostro tempo. Forse è per questo che è così difficile capire la natura e la caratura del personaggio: è sempre difficile capire cosa succede mentre succede. Forse ha ragione Ronaldo (Luís Nazario da Lima) quando dice che uno come Leonardo è destinato a spuntarla sempre: ci sa fare con le persone, dice il Fenomeno, e quelli così alla fine vincono. Forse aveva ragione Diego Armando Maradona, quando diceva che lui proprio non riusciva a capire che mestiere facesse Leonardo: il lobbista, forse? Ma di se stesso, per caso? O forse ha ragione Leonardo quando prova a riassumere in una frase la sua carriera fin qui, la sua vita fino a ora: «Sono arrivato qui con la mente sveglia, la voglia di capire, di conoscere».