Il classico errore che si fa quando si parla e si scrive di Nikola Jokic, è quello di includerlo in una categoria predefinita, di raccontarlo attraverso quei canoni estetici, tecnici e narrativi che lui stesso contribuisce a demolire sera dopo sera, partita dopo partita, stagione dopo stagione. Lo scorso 4 aprile, per esempio, nei minuti immediatamente successivi alla vittoria dei Denver Nuggets contro gli Orlando Magic – vittoria cui Jokic ha contribuito con la doppia doppia numero 43 in stagione: 17 punti, 9 rimbalzi e 16 assist (12 negli ultimi due quarti) in poco meno di 39 minuti di gioco – i principali statgeek Nba si sono affrettati a twittare che si trattava della gara numero 81 in carriera in cui andava in doppia cifra negli assist, strappando al grande Wilt Chimberlain il primo posto in questa particolare classifica; inoltre, in sei di queste gare ha superato quota 15 passaggi decisivi, fissando un nuovo record assoluto dopo quarant’anni.
Ancora una volta, però, tutto ciò che Jokic era stato in grado di fare su un campo da basket, al massimo livello competitivo possibile, era stato filtrato da un’idea di centro, anzi di giocatore, che non esiste più, perché è superata dal mondo, dal tempo, dal gioco stesso e dalla sua evoluzione. Un’evoluzione che, per usare le parole dell’executive dei Nuggets Tim Connelly, ha portato «un ragazzo di 2 metri e 11 a diventare il miglior passatore della sua generazione. Personalmente non ricordo molti giocatori di quelle dimensioni in grado di condurre il contropiede e di trovare sempre il compagno meglio piazzato cui far arrivare il pallone».Con questo tipo di statistiche, anzi con questo tipo di lettura delle statistiche, non sorprende che Jokic sia diventato la costante quotidiana negli aggiornamenti dell’Elias Sports Bureau, l’implacabile sorvegliante numerico dei principali sport americani cui nulla può sfuggire. Nella notte tra il 2 e il 3 marzo, complice il 37-10-11 contro i Milwaukee Bucks, ha raggiunto Kareem Abdul-Jabbar per numero di triple doppie da almeno 30 punti – otto, a meno 13 dal solito Chamberlain – realizzate da un centro, inaugurando un mese da “Player of The Month” della Western Conference a 27 punti, 11 rimbalzi e 8 assist di media, tirando con quasi il 60% dal campo e il 45% dall’arco: prima di lui, nell’era dei tre punti, ci erano riusciti soltanto Larry Bird, Michael Jordan, LeBron James (sei volte) e Luka Doncic.
Eppure, così facendo, si finisce quasi per ridimensionare il valore di Jokic, per sottostimare il suo grande impatto nella stagione che potrebbe consacrarlo MVP – sarebbe il giocatore con la chiamata più bassa al Draft (la #41 nel 2014) a diventarlo – oltre che la reale portata della sua rivoluzione. Stupirsi di Jokic perché fa certe cose e certi numeri giocando da centro significa non aver compreso che Jokic è qualcosa di più, è qualcosa di meglio, è la rappresentazione di un basket che sta vivendo la stessa evoluzione tecnico-tattica del calcio: non conta più il ruolo nominale, piuttosto sono decisivi i compiti, le funzioni, le attitudini, ciò che si può fare (o non si può fare) in relazione non tanto alle dimensioni ma alle qualità tecniche, alla coordinazione occhio-mano, al tipo di visione e interpretazione del gioco. Perché, se da un punto di vista fisico e iconografico, Jokic è un centro, non si può certo dire lo stesso per come pensa la pallacanestro, per come traduce l’intenzione nell’azione: Jokic si sente una point guard finita per sbaglio in quel corpo lì, e si comporta come tale; il modo in cui bypassa completamente l’antico brocardo dell’asse play-pivot interpretando l’uno e l’altro, la sua capacità di riaprire il contropiede a una mano dopo il rimbalzo con passaggi “quarterback” alla Joe Montana, il mettersi a giocare a due con Aaron Gordon come se si trovasse nel campetto dietro la sua casa di Sombor e non alla Ball Arena di Denver, è la manifestazione di un freak tecnico nell’epoca dei freak atletici.
Nella partita contro i Pistons del 6 aprile 2021 – 27, 8 rimbalzi e 11 assist nel 134-119 in favore dei Nuggets – c’è un canestro che spiega perfettamente tutto questo: mancano sei secondi alla fine del secondo quarto quando Jokic riceve dalla rimessa sul lato destro fronteggiato da Plumlee, finta il tiro per poi partire in palleggio a destra, si “svita” girando sul piede perno e lascia andare il pallone cadendo indietro in allontanamento. La parabola è probabilmente troppo alta, il movimento con le ginocchia a “caricare” il tiro non è stato completato del tutto e l’ideale angolo di 45° del gomito in preparazione è rimasto chiuso tra le pagine dei libri di teoria: insomma non c’è niente che vada in quel tiro, dal punto di vista stilistico e dell’esecuzione, eppure la palla entra senza neppure sfiorare il ferro. Quel tiro funziona.
Da vedere e rivedere
La non replicabilità di Jokic in una lega che pure ha avuto tra i suoi protagonisti lunghi in grado di passare la palla – Bill Walton, Arvydas Sabonis e Vlade Divac – e che ha nel cosiddetto point center il fit necessario per ogni squadra che punta quanto meno ai playoff, sta nella natura del passaggio stesso, nel modo in cui questo fondamentale esprime una dimensione creativa unica nel suo genere, anche nell’epoca dei big men multidimensionali. Giocatori ugualmente dinamici e creativi come Joel Embiid – altro candidato MVP –, Domantas Sabonis e Nikola Vucevic, pur essendo a loro volta degli ottimi passatori dalla grande visione periferica, tendono a risultare comunque piuttosto stanziali e a sfruttare la propria superiore dimensione fisica nel momento in cui si mettono spalle a canestro in attesa del taglio off the ball del compagno; Jokic fa anche questo ma non solo questo, grazie a uno skillset che gli permette di creare per sé e per gli altri direttamente dal palleggio, come e più delle migliori combo guards contemporanee. E non è un’eresia: guardando le ipnotiche “passing compilation” presenti su YouTube si intuisce come Jokic sia il playmaker, nemmeno tanto occulto, della sua squadra, che deforma a piacimento spazi e tempi di gioco grazie a un’ampia varietà di soluzioni contro-intuitive e di lettura.
Pete Maravich, visionaria point guard degli anni Settanta, un giorno disse che bisognava prepararsi, che ben presto sarebbero arrivati dei playmaker di oltre due metri che avrebbero cambiato per sempre la comprensione e la percezione del basket. Nessuno gli diede ascolto ma, di lì a poco, la Nba sarebbe stata dominata da Earvin “Magic” Johnson (2,06 m per 100 kg), archetipo di ciò che è oggi LeBron James. Jokic è l’ulteriore evoluzione della specie, la personificazione di un’utopia che sembrava irrealizzabile ma che è invece diventata attuale, tangibile, reale: «Semplicemente è il mio modo di giocare: il coach mi dà ampia libertà nel farlo e io lo faccio», disse Jokic lo scorso 29 dicembre quando, in occasione della partita contro gli Houston Rockets, mandò a referto una tripla doppia da 19 punti, 12 rimbalzi e 18 assist, nuovo massimo in carriera.
Gli highlights personali della partita contro Houston
Questo è anche il motivo per cui “The Joker” è diventato il favorito nella corsa al titolo di MVP. Titolo che, per la seconda volta nella storia dopo il duopolio Nash-Nowitzki tra il 2005 e il 2007, potrebbe non essere assegnato a un giocatore americano per il terzo anno consecutivo. Al di là del primo grave infortunio della carriera di LeBron, delle difficoltà che Curry sta incontrando nel riportare gli Warriors ai playoff praticamente da solo, e in attesa che Harden riesca a fare dei Nets una contender credibile al di là dello star power esercitato dai nuovi “big three” di Brooklyn, Jokic è diventato quello che Dan Devine su The Ringer ha definito come «un problema che nessuno può risolvere». In una Nba sempre più orientata al gioco perimetrale e che dal 2000 – quando toccò a Shaquille O’Neal – non vede un centro vincere il più ambito dei premi stagionali, Jokic è la variabile impazzita dell’equazione che vuole i corpi e i fondamentali di ieri incompatibili con il gioco e i ritmi di oggi: non c’è nulla, nella sua relativa fisicità, che richiami l’iper-atletismo e la sovradimensionalità che siamo abituati ad associare ai giocatori Nba odierni, che fanno tutto alla massima velocità possibile in spazi sempre più ridotti. Eppure Jokic domina, ha impatto sempre, comunque e contro chiunque, è il leader riconosciuto del quintetto potenzialmente più completo della lega per soluzioni offensive esplorabili nel momento in cui il numero 15 si mette a operare dal suo “ufficio” in post.
Nelle ultime quattro gare disputate, le triple doppie sono state tre, l’ultima – la quindicesima dell’anno, 17 punti, 10 rimbalzi e 11 assist contro i Miami Heat finalisti 2020 – è più significativa di altre perché occorsa nella prima partita successiva al grave infortunio che terrà fuori Jamal Murray fino al termine della stagione, cambiando le prospettive di competitività dei Nuggets e privando Mike Malone del giocatore che, più di tutti, è stato in grado di dare forma e concretezza alle intuizioni visionarie del serbo, in quella che è la bromance tecnica e psicologica più improbabile nella NBA dei “dynamic duos”.
Che a Denver tutto dipenda da Jokic, lo si nota non solo nelle statistiche relative al minutaggio – 35,8 minuti di media a partita, più di 38 minuti disputati in dieci delle prime 45 partite stagionali – o nei dati che raccontano di come le percentuali dal campo dei compagni migliorino esponenzialmente quando è sul parquet, ma anche in altri aspetti: è una questione prima di tutto visiva, di linguaggio del corpo, di prossemica del gioco, di fluidità di un sistema atipico costruito su misura per Jokic. E che solo con Jokic può funzionare. All’inizio della regular season il serbo ha ritoccato due volte il suo career high per punti segnati nel giro di una settimana – 47 contro i Jazz il 31 gennaio, 50 ai Sacramento Kings il 6 febbraio – ma è solo quando ha ricominciato a impattare sull’intero collettivo, redistribuendo tiri e responsabilità del terzo miglior attacco della lega per efficienza (quasi 117 punti ogni 100 possessi), che Denver ha cambiato realmente marcia, vincendo 16 delle 19 gare disputate tra metà marzo e inizio aprile e tornando ai vertici della Western Conference. E niente e nessuno, in questa stagione, è andato più vicino di così al concetto di “valuable”, che poi è quello più importante all’interno dell’acronimo MVP.
Veder giocare i Nuggets con Jokic, anzi i Nuggets di Jokic, significa prendere coscienza dell’ennesimo cambio di paradigma di uno sport che evolve più velocemente di quanto riusciamo a raccontare. Solo nell’ultimo decennio siamo stati testimoni del dominio del collettivo sulle grandi individualità esercitato dagli Spurs, dell’estremizzazione vincente dello small ball da parte degli Warriors, della supremazia tecnica, fisica e psicologica degli “all around players” alla LeBron James o Kawhi Leonard. Oggi tocca a Jokic cambiare e stravolgere tutto ciò che credevamo di sapere sul gioco inventato da James Naismith. Da centro di gravità permanente, ma non di ruolo.