Il sogno del grande calcio cinese è già finito?

Xi Jinping, leader supremo della Repubblica Popolare, aveva avviato un progetto titanico per rendere competitivi il campionato locale e la Nazionale: qualcosa, però, è andato storto.

Rowan Simons è un giornalista inglese che all’inizio degli anni Novanta decide di trasferirsi a Pechino. Gli piacciono il calcio e la Cina (in quest’ordine) e tutta la sua vita è stata un lavoro per mettere assieme queste passioni. Nel 2001, dieci anni dopo il trasloco dal Regno Unito alla Repubblica Popolare, Simons fonda ClubFootball, una rete che raccoglie, organizza e cura tutto il calcio dilettantistico giocato nella capitale. Sin dall’inizio Simons sa che sarà un’impresa perché in Cina mancano due delle tre cose indispensabili per giocare a pallone: lo spazio e le persone (il pallone si trova sempre, si sa). Nelle città cinesi non ci sono luoghi pensati per il calcio dei dilettanti e degli appassionati: ci sono gli stadi, ma quelli servono più al regime che agli sportivi. Anche dove quei luoghi ci sono, è difficile farne uso calcistico: se più di undici persone si ritrovano per scopi ricreativi, arriva la polizia a sciogliere l’assemblea e a imporre il rispetto della legge. Ancora oggi, in Cina la burocrazia del partito rende il calcio più complicato di quanto già non sia: i tatuaggi sono un problema, le esultanze equivocabili come sarcasmo un grosso problema. Simons ha raccolto tutte le sue peripezie di amante del calcio e cinese d’adozione in un libro bellissimo che si chiama Bamboo Goalpost: One Man’s Quest to Teach the People’s Republic of China to Love Football.

A leggere questo riassunto della storia di Simons, pare che calcio e Cina non si sposino bene, non si mischino affatto. Invece, a leggere Bamboo Goalpost, si capisce quanto i cinesi amino il beautiful game: è una passione che è andata oltre la violazione di legge, oltre il rischio di retata della celere. I cinesi amano il calcio nonostante la lentezza del “movimento” a istituzionalizzarsi: fare il calciatore professionista è possibile solo dagli anni Settanta, partecipare alle competizioni organizzate dalla FIFA solo dal 1997. Centinaia di migliaia di cinesi si ritrovano ogni fine settimana, oggi come allora, per assistere a partitelle più o meno organizzate, a incontri più o meno professionistici. E come in tutti i Paesi in cui il calcio è più di un gioco, il campo diventa spesso surrogato della battaglia: durante una partita valida per le qualificazioni al Mondiale del 1986, la Cina perse in casa contro Hong Kong (all’epoca ancora protettorato britannico): gli scontri che ne seguirono resero necessario il brutale intervento della polizia, chiamata a porre fine a una battaglia che ancora oggi è ricordata da una parte e dall’altra come “lo scontro del 19 maggio”.

Lo sport è uno specchio nel quale le dittature si aspettano di vedere riflesso un corpo perfetto, una forza evidente, dei muscoli tesi. Nessuna dittatura può accettare di vedersi sconfitta perché questo significherebbe ammettere di essere minore: la Repubblica Popolare Cinese, la “dittatura perfetta” analizzata da Stein Ringen nel libro omonimo, non può accettare una Nazionale maschile il cui ultimo Mondiale è ormai un ricordo lontano e spiacevole – nelle tre partite giocate in Corea del Sud e Giappone nel 2002, i cinesi hanno sempre perso, non hanno segnato mai e hanno subìto nove gol – e che è ferma al 73esimo posto del ranking FIFA. Il Paese che prima o poi strapperà agli Stati Uniti la fetta più grande della torta della ricchezza mondiale non può accettare di perdere contro la Thailandia, nemmeno in amichevole. Il popolo destinato a dare il nome al XXI secolo non può tollerare che Hong Kong, proprio Hong Kong, ancora una volta Hong Kong, si metta tra sé e il Mondiale fermando costringendo 1,3 miliardi di tifosi allo 0-0 non una ma addirittura due volte.

Il calcio è acqua e la storia il contenitore: il primo prende la forma della seconda. Nel 2013 Xi Jinping diventa segretario del Partito Comunista Cinese e comincia un’opera che è l’opera di tutti i governanti autoritari: prendere una cosa vecchia e malandata e farne una cosa nuova e migliore, dando a ognuno di questi aggettivi la definizione necessaria all’esercizio di un potere senza limiti né scrupoli. La corruzione del sistema fa parte del mito fondativo di tutti i leader supremi: è l’unica maniera per giustificare le purghe, che a loro volta sono l’unica maniera per consolidare il potere. Xi non fa eccezione, non risparmia nessuno, non si dimentica di niente. È un appassionato di calcio e usa il potere anche per scacciare dalla federcalcio cinese tutti coloro che negli anni sono stati accusati o sospettati di corruzione. È il capo ultras alla guida della più grande curva del mondo: sono decenni che i tifosi chiedono piazza pulita, solo una cupola di corrotti può aver ridotto il calcio della Repubblica Popolare a questa offesa, a queste umiliazioni. Mentre Xi diventa il leader supremo, propone (cioè impone) al popolo il suo sogno, che è anche un sogno di calcio. Già nel 2011 parlava del futuro tripartito del calcio cinese: prima bisogna partecipare al mondiale, poi bisogna ospitarlo, infine bisogna vincerlo. La bacheca pronta ad accogliere la prima Coppa del Mondo delle Repubblica Popolare è già pronta: il Loto, lo stadio-cuore della Coppa del Mondo cinese che sarà.

Il comunismo è fiducia in una forza brutale e spietata capace di scomporre il mondo nuovo da realizzare nelle operazione necessarie a realizzarlo: il tempo viene costretto nei piani pluriennali, lo spazio dentro i cancelli della fabbrica, i luoghi e i tempi scelti dal regime per assemblare le sue iterazioni future. Xi usa questa forza anche nella costruzione della Cina come superpotenza calcistica: nel 2050 la Repubblica Popolare deve essere campione del mondo, costi quel che costi. Se il talento c’è, va trovato e coltivato. Se non c’è, va sintetizzato e prodotto in massa. Quel che è valso per il medagliere olimpico deve valere per il palmarés calcistico: deve diventare esibizione di potere, del potere. Il comitato centrale recepisce l’ordine e lo diffonde nel Paese nella forma di numeri e lungo le vie della nomenklatura: entro il 2025 bisogna costruire 50mila scuole calcio che dovranno produrre 100mila giocatori degni di indossare la maglia rossa della Nazionale. Scuola calcio come quella del Guangzhou Evergrande, costata 185 milioni di dollari, frequentata da 3mila ragazzi, la più grande academy calcistica del mondo.

La Cina è un gigante che a ogni movimento sposta una massa d’aria tale da generare la tempesta: a un mercato mondiale dello sport che vale circa 145 miliardi di dollari, Xi contrappone un piano decennale da 850 miliardi. Un titano che proietta la sua ombra rossa sul Vecchio Continente: nel 2012 Anelka e Drogba vanno allo Shanghai Shenhua, Seydou Keita al Dalian Aerbin, Lucas Barrios al Guangzhou Evergrande e Yakubu al Guangzhou R&F; nel 2015 Paulinho al Guangzhou Evergrande; nel 2016 Hulk allo Shanghai SIPG, Ramires e Alex Teixeira al Jiangsu Suning; nel 2017 Pato al Tianjin Tianhai, Oscar allo Shanghai SIPG, Tévez allo Shanghai Shenhua, John Obi Mikel al Tianjin Teda e Axel Witsel al Tianjin Quanjian. Tra gli allenatori che cambiano continente ci sono Marcello Lippi, Luiz Felipe Scolari, Fabio Cannavaro. La Cina diventa il più importante partner della Premier League grazie a un accordo con Suning che prevede 700 milioni di dollari per tre anni di calcio inglese sui televisori cinesi. David Beckham diventa l’ambasciatore della Chinese Super League (CSL), a dimostrazione di quanto serio sia il progetto di makeover del calcio cinese. Le cifre complessive dell’operazione arrivano ad accumulare tali e tanti zeri che Arsène Wenger si fa portavoce del calcio europeo, e in una conferenza stampa del 2016 dice che la situazione è grave: secondo l’allenatore francese, tutti dovrebbero essere preoccupati da un portafoglio così profondo sostenuto da una volontà politica tanto ferma, tutti dovrebbero essere in ansia di fronte a una lega che si dimostrerà più spendacciona addirittura della Premier League nel mercato di riparazione del gennaio 2017.

Quando Wenger dice tutti intende tutti, anche quelli al di là dei confini della Nazione del Calcio. Il sogno calcistico di Xi non è certo un pet project e basta: è un saggio sul soft power, una dimostrazione di maestria nell’uso del maggiore dei poteri minori a disposizione di un regime, un esame di comunicazione politica in cui bisogna fare di tutto per prendere un voto più alto dei qatarioti e del loro mondiale del deserto costruito con i cadaveri degli schiavi. Abbiamo il privilegio di vivere l’epoca in cui una Repubblica Popolare cerca di comprare il mondo del capitale, un pezzo alla volta: nel 2017 nei consigli di amministrazione di 20 club europei almeno un posto era occupato da un dirigente cinese, oggi il 13% del Manchester City è di proprietà di China Media Capital e Suning si prepara a festeggiare lo scudetto dell’Inter. Tra le poche immagini “informali” di Xi ce n’è una del 2012 che lo ritrae con il pallone tra i piedi al Croke Park di Dublino e una nel 2015 all’Etihad Stadium mentre si fa un selfie con Agüero. Durante una visita in Inghilterra, il leader supremo si è premurato di regalare al Museo del Calcio di Manchester un cuju, la palla usata nel proto-calcio cinese già 2400 anni fa. Come si dice football is coming home in mandarino?

Fondato nel 1994, il Jiangsu Suning ha vinto il primo campionato della sua storia nel 2020, ma poche settimane dopo ha sospeso le sue attività (STR/AFP via Getty Images)

Nel dicembre 2019 a Wuhan, città di 11 milioni di abitanti nella provincia cinese di Hubei, si riscontrano i primi casi di una “polmonite di origine sconosciuta”: è l’inizio della pandemia, la fine di molte cose, l’inizio di tante altre. Tra i danni collaterali del Covid19 c’è il sogno calcistico di Xi: d’altronde, basta il tocco di un dito per far scoppiare la bolla. E le pareti di questa bolla erano già tese oltre il limite concesso dalle leggi della fisica. Suning è stata trascinata in tribunale dalla Premier League: l’accordo record prevedeva un primo pagamento da 200 milioni di dollari e il bonifico non è mai arrivato. In difficoltà quanto e più di qualsiasi altra azienda nel mondo, Suning decide di concentrarsi sul suo mestiere (il commercio al dettaglio) e di tagliare tutto il “non-essenziale”: il Jiangsu chiude i battenti pochi mesi dopo aver vinto il campionato, l’Inter è in vendita sì, no, forse, chissà quando e a quanto. Lo Shandong Luneng, vincitore dell’ultima FA Cup cinese, è stato espulso dalla Champions League per non aver pagato la quota d’iscrizione alla federazione panasiatica. Il Tianjin Tigers non paga gli stipendi da quando la Tianjin Teda, l’azienda proprietaria, ha smesso di metterci i soldi. Il Tianjin Tianahai è fallito in seguito all’arresto e all’incarcerazione del presidente Shu Yuhui. Il Liaoning FC, prima squadra cinese a vincere la Champions League asiatica, non esiste più.

La storia dell’ideogramma cinese che letto in un modo vuol dire crisi, e letto in un altro significa opportunità, deve essere vera. La pandemia diventa l’occasione per porre il freno del dirigismo a una spesa calcistica ormai impazzita: niente più sponsor aziendali sulle magliette della squadre della CSL; gli stipendi dei giocatori stranieri non possono sfondare il tetto dei tre milioni di euro, quelli dei giocatori cinesi non possono andare oltre i 765mila dollari lordi; il monte ingaggi complessivo di ogni squadra non può essere superiore a 91 milioni di dollari, quello riservato ai giocatori stranieri deve fermarsi a 12. E tutto questo dopo che già nel 2017 era stata introdotta una tassa del 100% sul player trading oneroso, extra-gettito fiscale da reindirizzare verso le accademie calcistiche dove si allenano i futuri fuoriclasse cinesi. Futuri fuoriclasse che saranno anche cittadini modello a cui non importerà nulla della sorte degli Uiguri, al contrario di tale Mesut Özil e di un certo Antoine Griezmann. Come in ogni Repubblica Popolare che si rispetti, tutto si muove nella direzione decisa da uno, dall’uno: pare Xi Jinping non fosse per niente soddisfatto della forma che stava prendendo il calcio cinese, trasformato da dieci anni di budget senza limiti in un red carpet per stelle più o meno luminose, tutte e sempre straniere. Non si vincono Mondiali con il talento estero.

Non so se Xi Jinping abbia mai concesso la sconfitta, ammesso la sua inferiorità di fronte a un avversario migliore di lui. So però che il leader supremo del Paese che si appresta a diventare la prima potenza economica mondiale, la guida di una Repubblica grande 1.3 miliardi di persone, il nome in cima alla più implacabile e infallibile macchina burocratica del mondo, è stato costretto dalle difficoltà incontrate nella realizzazione del suo sogno calcistico a dire che: «Il successo non deve arrivare nell’arco della mia vita. Ci vuole molto lavoro, quindi continuate a impegnarvi tanto, cominciate dalle basi, dal basso e dalle masse». La via cinese al calcio è appena cominciata.