Il doppio ruolo del calcio nel golpe in Myanmar

Molti club del campionato locale sono legati alla giunta militare che ha preso il potere due mesi fa, eppure le tifoserie organizzate sono al centro delle proteste contro il nuovo regime.

Il primo febbraio 2021 il Myanmar è di nuovo caduto sotto il giogo della dittatura. Con un annuncio alla tv di stato, i più alti rappresentanti delle forze armate birmane hanno dichiarato lo stato d’emergenza, deponendo il governo democratico e compiendo l’ennesimo colpo di stato, il terzo negli ultimi cinquanta anni. Nell’ultimo mezzo secolo l’ex Birmania – che ha cambiato nome per volere dei militari nel 1989 – ha visto fuggire oltre i propri confini centinaia di migliaia di esuli ed è diventata una delle nazioni dal reddito pro-capite più basso del pianeta, nonostante sia ricca di giacimenti di petrolio e gas naturali, di miniere di gemme preziose. Il premio Nobel per la pace 1991, Aung San Suu Kyi, primo ministro al momento del golpe, è detenuta in un luogo segreto e di lei e degli altri leader delle opposizioni non si hanno notizie certe. Siamo di nuovo a un punto di non ritorno, ma stavolta la società civile sembra decisa a non chinare il capo pedissequamente: fin dal primo giorno sono state decine le manifestazioni per difendere quei diritti acquisiti con tanta fatica.

In questo quadro sociale nuovamente in mutazione, il calcio è diventato uno degli strumenti per far sentire la propria voce. I birmani, nonostante la povertà e la mancanza di libertà, non hanno mai smesso di seguire il loro sport preferito, perché il calcio, in questo spicchio di Sud-Est asiatico, è una vera e propria mania. La Nazionale è stata una delle più importanti del continenti tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, e le squadre che partecipano alla Myanmar National League, il cui livello tecnico e tattico è modesto se paragonato a quello europeo, hanno gruppi ultras che non hanno niente da invidiare a quelli di altri continenti per partecipazione, coreografie e impatto sulla comunità.

Durante la dittatura questa grande passione è diventata uno degli strumenti di controllo sociale da parte della giunta militare, e degli imprenditori che a essa sono collegati. Basta scorrere i nomi dei club della massima divisione birmana per trovare squadre riconducibili ai militari: il Myawady FC, squadra dell’esercito; lo Shan United, club vincitore di tre degli ultimi quattro campionati; la KBZ o lo Yangon Utd, il cui proprietario è Tay Za, l’uomo più ricco della Birmania.

Gli incroci tra calcio e politica in una dittatura sono impercettibili a prima vista, ma scavando più in profondità si scoprono delle connessioni molto radicate e ben diramate. Ad esempio dal 2005 la  Myanmar Football Federation, è presieduta da Zaw Zaw, imprenditore birmano. Il suo impero, la Max Myanmar Group, è costruito su una rete di potere e corruzione che comincia a crescere durante i periodi più tragici della dittatura, ma che fiorisce definitivamente una volta iniziata la transizione alla democrazia. In quel momento i ricavi della sua corporation raddoppiano. La biografia di Zaw Zaw è in larga parte avvolta nel mistero. Uno dei pochi dettagli certi risale al 1991, quando si trova in Giappone. È proprio nel paese del Sol Levante che fonda la sua prima attività imprenditoriale lucrativa: il trading di macchine usate verso Myanmar e altre nazioni in difficoltà. Quello che lo fa diventare ricco è uno stratagemma, di cui si serve con furbizia: il governo birmano concede ai suoi connazionali che vivono all’estero di importare una macchina a testa nel proprio paese d’origine. Il gioco è presto fatto. Zaw organizza una vera e propria operazione capillare, coinvolgendo migliaia di connazionali che vivono all’estero e così il suo successo economico è immediato. Dopo aver raccolto un primo ingente capitale, torna in Myanmar e stipula una serie di contratti con la giunta militare, per la costruzione di importanti infrastrutture pubbliche, tra cui stadi e facilities sportive. Da lì la sua ascesa diventa inarrestabile e dopo essere diventato Presidente della federcalcio birmana, assume la vicepresidenza dell’ASEAN – associazione delle squadre del sud-est asiatico – e della AFC – la confederazione asiatica.

Oggi il gruppo guidato da Zaw conta 11mila impiegati e interessi nel settore alberghiero, bancario ed edilizio. Sono molto importanti anche i suoi legami anche con la stessa Aung San Su Kyi, amicizia che ha attirato parecchie critiche sul premio nobel, e con Blatter prima e Infantino dopo, che lo accolgono a braccia aperte nella sede della Fifa. Il calcio è il grimaldello perfetto per curare i propri interessi. Nell’aprile 2020 decide di donare un milione di dollari alla lotta del Myanmar contro il COVID-19. La filantropia come strumento per abbonire le masse o per ingraziarsele?

Un gruppo di manifestanti sfoggia le maglie dei club di Premier League (STR/AFP via Getty Images)

Ma il calcio è anche fantasia, ribellione e riscatto. Perciò, se da una parte ci sono le istituzioni federali e i proprietari dei club che sono compromessi con il regime, dall’altra esistono componenti del mondo del calcio che scendono in piazza al fianco dei manifestanti, in primis le tifoserie organizzate. Il protagonismo dei gruppi organizzati è organico e non estemporaneo. Lo dimostra quanto è successo il 28 agosto 2014. Si gioca allo stadio nazionale di Yangoon la partita di qualificazione al Mondiale 2018 tra i padroni di casa e l’Oman. Gli ospiti sono in vantaggio per 2-0 e tutto sembra andare tranquillamente, finché, dopo l’assegnazione di un rigore sacrosanto agli omaniti, i tifosi birmani lanciano verso il campo bottigliette, pietre e qualsiasi altro oggetto contundente capiti loro sotto tiro, costringendo l’arbitro a sospendere la partita. Dopo questi eventi la Fifa bannerà il Myanmar per 2 anni da qualsiasi competizione internazionale. Agli occhi di osservatori esterni viene naturale domandarsi come sia possibile che uno stato militare possa permettere che succedano rivolte come questa. La risposta è che lo stadio, che è rimasto uno degli ultimi luoghi liberi in Birmania, sia diventato il palcoscenico per protestare contro la dittatura.

Per questo non appena sono iniziate le mobilitazioni contro il golpe del primo febbraio 2021, in piazza si sono visti colori e bandiere delle squadre birmane. Da notare come al fianco dei tifosi si siano schierati molti giocatori della nazionale birmana, come Kyaw Zin Htet, portiere titolare dei leoni asiatici, che ha dichiarato sui propri social: «Vogliamo una vera democrazia. Vogliamo progredire e non accetteremo che ci riportino dietro agli anni bui della dittatura. Ecco perché non giocheremo per la Nazionale, finché non sarà ripristinata la democrazia». I militari continuano a essere implacabili, sparano sulla folla e arrestano centinaia di dissidenti e anche il calcio ha pagato il suo tributo. Il 27 marzo durante una manifestazione è stato ucciso dal proiettile di un fucile della polizia, il ventunenne Chit Bo Bo Nyein, capitano dell’U21 dello Hantharwady United. Il suo necrologio è l’ultimo post pubblicato sulla pagina Facebook della Myanmar National League, che da quel giorno non ha pubblicato nessun aggiornamento. Un silenzio che non preannuncia niente di buono e che si assomma a quello dei social di tutte le squadre che sono diventati muri vuoti. Il campionato è fermo a tempo indeterminato e all’esterno non trapela nessun informazione che ci permetta di capire che cosa stia succedendo. Che cosa ne sarà dell’intero Myanmar, della sua Nazionale, dei suoi tifosi, dei suoi cittadini è un interrogativo che tutta la comunità internazionale dovrebbe porsi con forza, perché lasciarli soli ancora una volta sarebbe un errore umanitario imperdonabile.