Jorginho è unico

Sembrava destinato a esprimersi bene in un unico sistema. Invece ha saputo imporsi e smussare i suoi angoli, e così oggi è il leader del Chelsea e dell'Italia: due grandi squadre che giocano al suo ritmo.

La città di Brusque dista poco meno di duecento chilometri da Imbituba, la “capitale della balena franca”, nello stato di Santa Catarina, a sud del Brasile. Jorginho aveva quattordici anni quando si trasferì per giocare in una delle tante piccole scuole calcio che vantavano un buon gancio con l’Europa. Alcune strutture erano fatiscenti, di inverno non c’era l’acqua calda negli spogliatoi, ma diversi ragazzi riuscivano effettivamente a guadagnarsi la chance di partire per l’Italia. Jorginho resistette due anni: «Non butterò via la mia occasione di giocare in Europa perché i bagni sono sporchi», racconta di aver detto alla madre, che insisteva per portarlo via da lì. Come tantissimi calciatori nati e cresciuti in Brasile, Jorginho si è formato superando ostacoli, adattandosi a contesti. In campo, invece, la sua identità è sempre stata rara e difficile da piegare.

Lo stesso centrocampista ha raccontato che, all’inizio della sua esperienza in prima squadra a Verona, di ritorno dal prestito in Serie C2 alla Sambonifacese, Andrea Mandorlini decise di puntare su di lui soltanto quando si infortunarono sia il titolare che la riserva nel suo ruolo. Insomma, quando l’unica alternativa rimasta era improvvisare. È strano immaginare uno dei pochi calciatori di livello internazionale che ha prodotto il movimento italiano – per quanto giovane – ai margini dell’Hellas in Serie B, ma per un giocatore così particolare, e per certi versi difficile da comprendere, in un contesto dove si privilegiano sempre la sicurezza e l’esperienza, è forse più facile riuscire a pensarla così.

Jorginho non è per nulla dotato fisicamente, anzi, il suo modo di stare in campo sembra improntato a ridurre il più possibile la corporalità nelle situazioni della partita che lo coinvolgono e a trasferire la lotta sul piano cerebrale. Non ha l’intensità e la potenza per basare il proprio gioco difensivo sul corpo a corpo per strappare il pallone dai piedi dell’avversario, né tantomeno l’esplosività o il passo per recuperare tanti metri in transizione; piuttosto, cerca sempre di leggere la sua traiettoria prima che l’uomo riceva, o di accorciare gli spazi in avanti. Sembra sottrarsi a tutte le scene plastiche, a tutte le esibizioni di atletismo che il calcio di solito offre. Persino la tecnica, uno dei suoi punti di forza, non svolta mai verso picchi di spettacolo, rimane solo costantemente pulita. Le sue compilation di skills su YouTube sono letteralmente una sequenza di passaggi riusciti, all’apparenza anche piuttosto semplici da eseguire per un centrocampista di qualità, che però, estrapolati dal loro contesto, restano privi di ciò che rende Jorginho un regista di altissimo livello: l’importanza di quel micro-momento all’interno dell’azione. Quando riceve, il numero cinque del Chelsea vede la situazione che ha davanti a sé, tocca il pallone il numero minore di volte possibile, orienta il corpo per facilitare il passaggio successivo – perché è il passaggio successivo, far progredire l’azione allo step seguente, l’obiettivo del suo calcio – e lo esegue, con precisione.

Il calcio, per Jorginho, è una specie di partita a scacchi in cui ogni mossa ha senso come prodotto della precedente e in funzione della successiva: la sua forza è capire al primo sguardo qual è la cosa giusta e farla, vedere l’uomo libero e trovarlo senza perdere tempi di gioco, senza interrompere il flusso. Sono abilità assolutamente consistenti ma meno tangibili, e non è un caso che le critiche più frequenti che riceve lo accusino di essere poco incisivo individualmente. «Non dà niente né da una parte né dall’altra del campo. Non corre e non aiuta in fase difensiva», ha detto di lui Rio Ferdinand due anni fa. «È soltanto uno che detta i ritmi di gioco. In tutta la stagione quanti assist ha fatto? Nessun assist in 2000 passaggi». Il punto attorno a cui si genera questo tipo di confusione, di dibattito, è che a Jorginho viene rimproverato di non essere abbastanza bravo a mangiare le pedine avversarie come se fosse un giocatore di dama, mentre in realtà sta pensando a ciò che serve per mettere sotto scacco il re.

Allo stesso tempo, è innegabile che la miscela tra caratteristiche così specifiche – la spiccata intelligenza nel piazzamento, nello smarcarsi per ricevere, nello scegliere la giusta giocata ed eseguirla nel giro di un paio di tocchi – e le sue lacune dal punto di vista atletico, lo rendano uno specialista di un certo tipo di calcio. Il rendimento è questione di contesto per tutti, ma per certi giocatori più che per altri: persino Sergio Busquets, il re di tutti i centrocampisti lenti ma cerebrali del nostro secolo, una macchina quando deve palleggiare e difendere in avanti, faticherebbe a dover rincorrere avversari in spazi aperti. Jorginho ha notoriamente raggiunto l’apice del proprio rendimento nel Napoli di Maurizio Sarri: al centro di quel sistema di combinazioni continue, che costringevano l’avversario a barricarsi nella sua metà campo, oppure acceleravano velocemente sulle ali o penetravano tra le linee, c’era il centrocampista italo-brasiliano. Faceva esattamente ciò che sapeva fare meglio, con e senza palla, e pur senza essere mai appariscente dettava il contesto in modo determinante: era la scatola nera di quel Napoli. Non a caso, quando il Chelsea ha deciso di intraprendere un nuovo progetto tecnico con Sarri alla guida, la pietra angolare, costata sessanta milioni di sterline, è stata proprio Jorginho. Dal momento in cui ha iniziato a giocare in Premier League, il regista di Imbituba ha inconsciamente sottoposto la propria carriera al più duro stress test: provare a rendere al meglio in un contesto molto meno familiare tecnicamente.

Jorginho nelle sue interviste ha sempre difeso Sarri e l’efficacia del suo calcio, anche nei momenti più duri della sua esperienza al Chelsea, quelli in cui i tratti del sarriball erano oggetto dell’insofferenza dei tifosi e della critica. L’antipatia nei confronti dello stile “noioso” e “lento” sviluppato dall’allenatore italiano si rifletteva in campo sul giocatore che più di tutti ne era la diretta emanazione, nel bene e nel male. Jorginho e le sue trame, agli occhi dei tifosi, diventarono presto il capro espiatorio di un progetto che, sebbene non riuscì a raggiungere fino in fondo il compimento tattico visto a Napoli, tra lacune, difficoltà e soluzioni trovò una direzione tutto sommato solida e vincente. L’ex centrocampista del Napoli ha lottato per evitare che la sua immagine si appiattisse a quella di “uomo di Sarri” ossia di un eccellente giocatore di sistema, anzi, di un sistema, quello sarriano. «Ho una relazione normalissima, con Sarri. Non esco a cena con lui, non vado a trovarlo a casa. Lui mi spiega cosa vuole da me, io cerco di migliorare quello che lui vuole in campo. Sono soltanto un giocatore che può aiutarlo a fare ciò che vuole che la sua squadra faccia» ha raccontato al Guardian in un’intervista di due anni fa.

Jorginho ha esordito con la Nazionale italiana il 24 marzo 2016; da allora, ha accumulato 27 presenze e cinque gol (Alberto Pizzoli/AFP via Getty Images)

Nel 2019, dopo l’addio del tecnico toscano, ha commentato così l’inizio dell’esperienza di Lampard sulla panchina del Chelsea: «Le mie caratteristiche sono controllare il gioco, stare al centro e organizzare la squadra, ma so anche adattarmi. Questo sistema è una novità e mi richiederà un po’ di tempo, ma mi piace e ci stiamo lavorando bene. Ho più spazi per creare, sono più libero di esprimere la mia creatività». Un lento adattamento all’ambiente e, soprattutto, il suo grande bagaglio di qualità, gli hanno permesso di resistere ad alti livelli in un contesto obiettivamente diverso da quello in cui ha saputo esprimersi meglio, anche attraversando periodi difficili come l’inizio di questa stagione, in cui ha guardato dalla panchina diverse gare consecutive di Premier League. Con Lampard si è dovuto adattare a un calcio più diretto e alla copertura di spazi più ampi in non possesso, per di più un campionato in cui la capacità di sostenere sfiancanti transizioni salva giocatori molto meno forti di Jorginho. Insomma, è riuscito a rimanere fondamentale anche se vulnerabile nelle stesse situazioni che ne avevano contenuto l’esplosione nel suo primo anno di Napoli, nel 4-2-3-1 di Benitez.

Il grande risultato del ragazzo di Imbituba, in queste prime tre stagioni di Chelsea, è aver dimostrato di saper competere ad alti livelli – anzi, al livello più alto – anche fuori dalla sua zona di comfort. Paradossalmente, lo ha fatto confermando di poter eguagliare i suoi migliori picchi solo giocando il suo calcio, in cui può isolare i suoi preziosi pregi e far scomparire i difetti. La sua resistenza lo ha portato a guadagnarsi questo periodo sotto la guida tecnica di Thomas Tuchel, un tecnico con uno stile di gioco più elaborato in uscita e nel palleggio, e quindi più affine – anche senza palla – alle sue caratteristiche, come lui stesso ha evidenziato. Davanti a sé, in questo momento, Jorginho ha una semifinale di Champions League e un Europeo da giocare al centro di una Nazionale costruita per andare al suo ritmo. Per seguire uno dei calciatori più rari e intelligenti d’Europa.