Manchester United-Roma 7-1: leggenda e tormento

La notte in cui la Roma di Spalletti, una delle squadre più solide e innovative della Serie A, crollò in maniera assurda e inaspettata.

Digitando su Google “Manchester United-Roma 2007” ci si ricorda – anzi: ci si rende conto – che, prima della fine di quell’anno, i giallorossi sono tornati a Old Trafford anche una seconda volta dopo il 7-1 del 10 aprile. Potrebbe sembrare una coincidenza troppo assurda per essere vera o, se preferite, un atroce scherzo del destino. Eppure è successo davvero: era il 2 ottobre, seconda giornata della fase a gironi della Champions League 2007/2008, e la gara è stata decisa da una rete di Wayne Rooney al 70’.

Poco meno di sei mesi prima, sempre nello stesso stadio, sempre allo stesso minuto, il punteggio era già sul 6-0 e Daniele De Rossi aveva appena realizzato uno dei gol più belli e inutili della sua carriera, forse il più bello in assoluto, un irreale destro al volo in torsione su cross dalla destra di Totti, con il corpo quasi del tutto spalle alle porta. Un gesto tecnico superbo e superfluo, il dettaglio marginale di un dramma sportivo che avrebbe fagocitato tutto il resto, alterando percezioni, memorie e ricordi di un’intera fase storica, come se il prima e il dopo non fossero mai esistiti: «Roba utile solo per gli archivisti, non certo per chi ha voglia di sorridere pensando alla Magica. E resta da chiedersi che valore reale abbia quella rete nel cuore di DDR» si lesse sul Messaggero il 12 dicembre 2007, più di due mesi e mezzo dopo quel ritorno al “Teatro dei Sogni” – o degli incubi – privo di quel significato di rivincita a ogni costo che tutti volevano attribuirgli, e che nessuno sapeva o voleva cogliere. Da Manchester a Manchester senza ritorno, come se la Roma fosse rimasta lì, prigioniera di un limbo di astrazione, di indeterminatezza, un buco nero dal quale doveva uscire pur senza avere la reale voglia di farlo.

De Rossi, uno dei “reduci” di quella serata, sarebbe diventato testimone anche di quella seconda trasferta surreale in cui il principale motivo d’interesse sarebbe stato il prepartita. La stampa inglese era intenta a cercare di scoprire chi fossero i giocatori che, stando ai racconti di Cristiano Ronaldo, a un certo punto avevano chiesto (qualcuno addirittura “minacciato”) al portoghese di non infierire oltre, di finirla lì. Senza ottenere l’effetto sperato visto che sia CR7 che resto della squadra avevano continuato ad attaccare come se la partita fosse ancora in equilibrio, con ogni gol in più che sembrava sortire il paradossale effetto di anestetizzare la rabbia che nel frattempo era diventata frustrazione, un mesto ma doveroso ossequio a quel principio per cui se qualcosa può andar male, lo farà, che sembra essere parte integrante della storia della Roma, oltre che del romanismo in generale.

Parlare quattordici anni dopo di “Manchester-Roma setteauno” significa, però, provare ad andare oltre questo senso di rassegnazione e ineluttabilità legato alla componente emotiva e irrazionale del tifo, accettando l’idea che anche le grandi squadre – e quella Roma lo era nella misura in cui la grandezza non viene fatta dipendere esclusivamente dal numero di trofei conquistati – possano crollare improvvisamente sotto il peso di pressioni, paure, debolezze e fragilità che non gli apparterrebbero in condizioni normali, in partite normali: «Nessuno credeva che fosse possibile trattare così una squadra italiana in nemmeno 20 minuti» scrisse Kevin McCarra nel suo live report per il Guardian commentando l’azione del 3-0 che aveva ridicolizzato uno dei sistemi difensivi più solidi della Serie A. E cioè Cristiano Ronaldo che prende palla nella sua trequarti, salta De Rossi e Panucci come li salterebbe il ragazzino invitato al calciotto del giovedì tra cinquantenni dopo una corsa in campo aperto in beata solitudine, e appoggia ad Alan Smith; a sua volta, l’ex Leeds United allarga a destra per il quasi 34enne Ryan Giggs che accorre veloce, ma neanche troppo: uno sguardo al centro ad aspettare il momento in cui Rooney brucerà Cassetti sul taglio, assist scolastico, tocco d’interno, palla in rete. In panchina l’espressione a metà tra l’incredulo e lo sconcertato di Luciano Spalletti sarebbe stata da meme se i meme fossero già stati inventati: «Cosa cambierei se potessi rigiocarla? Beh starei a casa», disse nelle interviste del post gara.

In effetti sembra davvero tutto facile

Quel gol, quel momento, fu l’ideale opposto della danza tribale di Mancini a Lione, la fotografia di una partita irripetibile o comunque decontestualizzata all’interno di una stagione in cui la Roma si era consolidata come una realtà solida, credibile, ambiziosa, anche fuori dall’Italia. Una credibilità costruita nel tempo, legittimata dall’essersi andati a prendere la qualificazione in casa del già citato Lione, cioè una delle squadre che meglio rappresentava la nouvelle vague del calcio europeo e che era all’apice di uno strapotere tecnico e psicologico sintetizzato solo in parte dai sei campionati consecutivi (sarebbero poi diventati sette alla fine della stagione) vinti fino a quel momento; inoltre i giallorossi avevano vinto la sfida l’andata contro i Red Devils, e l’avevano fatto andando ben oltre il 2-1 comparso al 90’ sul tabellone dell’Olimpico. Tutta questa forza, tutta questa credibilità vennero però ridimensionate, anzi cancellate, da un cortocircuito individuale e collettivo che non aveva – e non ha ancora oggi – una reale spiegazione tattica, tecnica, “di campo”.

Quello che successe dopo l’1-0 di Carrick non fu la conseguenza di uno squilibrio evidente nei rapporti di forza – come per esempio accadde alla Roma di Garcia, contro il Bayern, sette anni dopo – quanto, piuttosto, il segno di una resa incondizionata alle pressioni negative di una partita che, secondo Totti, «per un tifoso romanista vale più della finale mondiale di Berlino», con tutto il carico di responsabilità ed emotività che comportava il giocare per qualcosa di più di un passaggio alle semifinali di Champions League. Se si volesse cercare un termine di paragone, se si volesse sul serio provare a immaginare cosa significò per i giocatori trovarsi in una congiuntura spazio-temporale così sbagliata, bisogna pensare al “Mineirazo”, al 7-1 della Germania al Brasile padrone di casa nella semifinale dei Mondiali 2014, e non solo per l’analogia nel punteggio: l’immediatezza e la progressività del crollo psico-fisico, l’incapacità di reagire a qualsiasi evento contrario alle aspettative della vigilia, l’essere totalmente impreparati all’idea di poter perdere, di poter perdere così, la sensazione di trovarsi in una situazione per cui più lotti per tirartene fuori più finisci con l’essere risucchiato, costituiscono il punto d’incontro tra due epoche e tra due squadre molto diverse tra loro. E se la Roma di Spalletti era più forte, più organizzata, più strutturata a livello collettivo del Brasile di Scolari, con quest’ultimo ha condiviso quella percezione di squilibrio e precarietà per cui qualsiasi cosa avessero fatto gli avversari – che si trattasse dell’ennesimo strappo palla al piede di Ronaldo o di un secondo tracciante di Carrick destinato all’incrocio dei pali – avrebbe avuto ragionevoli probabilità di trasformarsi in gol, in un altro gol, in un ennesimo gol.

L’istantanea di quella partita, se ce n’è una

Allo stesso modo, la Roma che stasera parte alla caccia della terza finale europea della propria storia, proprio nello stadio in cui il suo percorso di crescita subì una brusca interruzione quattordici anni fa, è una squadra molto meno forte e continua di quella che si presentò al cospetto di Alex Ferguson con realistiche possibilità di passaggio del turno. Anzi, se ne facessimo una questione di linearità, coerenza e solidità del sistema, ipotizzare oggi un crollo simile sarebbe molto più sensato di quanto non lo fosse, all’epoca. Eppure proprio questa incongruenza di fondo, questa apparente impossibilità di affidarsi a certezze e principi identitari che non possono crollare, rende questa squadra potenzialmente più adatta di quella ad affrontare le montagne russe tecniche ed emozionali di una partita di questo tipo, una gara in cui è fondamentale saper restituire immediatamente il pugno che si è appena preso per non rischiare di finire alle corde o, peggio ancora, al tappeto. Si tratta di qualcosa che va oltre i pregi e i difetti, ugualmente evidenti, che hanno caratterizzato la seconda Roma di Fonseca: certe volte saper improvvisare, sapersi adattare a situazioni di difficoltà che non si erano messe in conto, è molto più importante della capacità di andare subito in verticale o di risalire il campo palleggiando. E la Roma, oggi, sa fare anche questo.

Il 9 aprile 2008, la Roma di Spalletti tornò a Old Trafford per la terza volta in dodici mesi. Sempre contro il Manchester United, sempre nel ritorno dei quarti di finale di Champions League, conquistati stavolta a scapito del Real Madrid. Al 30esimo del primo tempo, sullo 0-0, De Rossi calciò in Stretford End il rigore che avrebbe rimesso in discussione una qualificazione compromessa dallo 0-2 subito nel match d’andata; al 70esimo minuto, Tevez chiuse ogni discorso con il colpo di testa che fu un altro piccolo passo sulla strada della finale di Mosca contro il Chelsea. Cosa poteva – e può – esserci di più romanista?