L’educazione di un calciatore

Come si formano i giocatori e i cittadini di domani? Un'inchiesta su metodi e prospettive dei settori giovanili italiani.

20 dicembre 2011, vigilia d’inverno a Coverciano. Il presidente del settore tecnico della Figc, Roberto Baggio, mette sul tavolo un documento di 890 pagine per rivoluzionare la crescita del talento in Italia. Rinnovare il futuro, l’ambizioso titolo scelto da chi è stato chiamato a ripensare il movimento calcio dopo il tracollo in Sudafrica del Lippi II (ultimi in un girone di latta composto da Nuova Zelanda, Paraguay e Slovacchia). Così ricorda quel giorno il suo storico manager, Vittorio Petrone, che affiancò l’ex Pallone d’oro anche in questa avventura come componente del settore tecnico e coordinatore per lo sviluppo del calcio giovanile: «Chiedevamo di fare un investimento importante sulla cultura dei vivai, infondere valori ed etica lungo tutto il percorso di crescita, dai bambini di 10 anni fino ai ragazzi della Primavera. Ma anche di dare uniformità alla formazione dei tecnici, spesso trascurata e affidata a singole iniziative. Per giovani, distanti centinaia di chilometri dalle famiglie, gli allenatori rappresentano punti di riferimento e devono assolvere innanzitutto un ruolo da educatori».

Mancò il coraggio, in quell’occasione, di prendere una scelta radicale sui vivai (poco dopo Baggio lasciò l’incarico), ma contemporaneamente il contestuale arrivo sulla panchina della Nazionale di Cesare Prandelli inaugurò una gestione dell’azzurro improntata ai valori della correttezza e della legalità (il codice etico per i calciatori, gli allenamenti su campi confiscati alla ’ndrangheta, la visita ad Auschwitz o la convocazione di Simone Farina dopo la denuncia di un caso di calcioscommesse). Un solco seguito anche dall’attuale ct Roberto Mancini, con la scelta di scendere in campo in una Bergamo ferita dal Covid o le visite ai bambini in ospedale a Roma. In generale, i professionisti del mondo del calcio appaiono oggi sempre più consapevoli del loro ruolo fuori dal campo di gioco. E non solo per la partecipazione a iniziative promosse dai rispettivi club di corporate social responsibility. Emblematico, fuori confine, il caso di Marcus Rashford, l’attaccante del Manchester United che durante il lockdown ha duramente polemizzato con il primo ministro Boris Johnson sulla necessità di distribuire buoni pasto a bambini disagiati.

Sarebbe ipotizzabile una analoga presa di posizione in Italia? «Non saprei, generalmente un calciatore tende a evitare terreni che possano creare tensioni con la società», riflette Alessandro Spanò, l’ex capitano della Reggiana che ha destato scalpore per aver abbandonato lo sport a soli 26 anni preferendo completare il suo programma di studio alla Hult International Business School in Inghilterra. «Credo sia opportuno confrontarsi con il social media manager che nel club ha la responsabilità di questo. Però, in certi momenti, occorre prendersi delle responsabilità. A me è capitato in occasione del rilascio di Silvia Romano e la sua conversione all’Islam di ricordare su Instagram la mia esperienza di volontario in Africa, e immaginarmi rapito prima, e morto poi rientrare in Italia dentro una bara, per una scelta politica di non pagare il riscatto. Non chiesi un permesso prima di scriverlo. Mi sentivo di dover prendere posizione e lo feci».

Per molti anni ci si è concentrati sul dopo, su come preparare i calciatori una volta terminata l’attività agonistica, trascurando il prima, come si arriva al professionismo, come va gestito quel passaggio in una età così sensibile ai richiami esterni. Senza dimenticare che non tutti arriveranno a quel momento.
Roberto Samaden, direttore all’Inter del settore giovanile, non ha dubbi su questo. «È in atto un cambiamento culturale importante nel mondo dello sport, che deve ancora completarsi, sul prendere coscienza che i ragazzi che frequentano i settori giovanili non rappresentano tanto il futuro del calcio, ma la prossima classe dirigente del Paese. Per questo è importante che abbiano una formazione adeguata. Tutte le attività extra campo per noi fanno parte dell’allenamento, non rappresentano qualcosa di integrativo». Ci tiene a sottolineare l’evoluzione del ruolo di educatore Valerio Chiatti, 41 anni, da otto responsabile della scuola calcio del Bologna Fc: «Abbiamo preso consapevolezza dell’importanza di alcuni dettagli, come quello del linguaggio non verbale. Un tecnico che si mette le mani nei capelli per un passaggio sbagliato trasmette un messaggio di censura anche senza urlare un rimprovero. Questo non significa che non va corretto l’errore, ma meglio farlo con un: “Va bene, ci hai provato, pensa anche a che altra scelta potevi fare”». È una gestione dello stress graduale, lasciando intatta nel bambino la voglia di gioco, per poi introdurre maggiori responsabilità strada facendo. Un percorso che necessita della collaborazione dei genitori: «Dobbiamo coinvolgere i genitori, che restano il punto di riferimento più importante per i giovani atleti, nel non caricare di aspettative la prestazione del loro figlio o figlia. Al bambino che rientra dalla partita non va chiesto: “Allora, hai vinto oggi?”, ma piuttosto: “Ti sei divertito?”, “È stata una bella giornata?”, e poi, solo dopo, “E com’è andata la partita?”».

Un ruolo importante di raccordo tra società e genitore è quello che svolge da sette anni Enrico Costi al Sassuolo, responsabile dei quaranta ragazzi ospiti del convitto neroverde (da quelle stanze sono passati, ad esempio, Claud Adjapong, Martin Erlic, Nicholas Pierini). «La fortuna di vivere in una città di quarantamila abitanti mi ha permesso di costruire un rapporto con tutte le scuole del territorio. Se uno dei nostri ragazzi inciampa in qualche difficoltà tra i banchi parlo con i professori e, ovviamente, con la famiglia, per ragionare insieme come recuperare. Le regole del convitto sono poche ma ben chiare. Rispetto verso tutte le persone del club, dall’allenatore alla cuoca. Fino allo scorso anno, prima del Covid, avevamo anche previsto delle piccole multe simboliche, di pochi euro, per disattenzioni, una tavola non sparecchiata o un letto disfatto. Gruzzoletto che alla fine dell’anno devolvevamo ad associazioni del territorio».

Jonatan Binotto, centoventi partite in A, ai ragazzi che allena nell’Under 15 della Spal chiede le pagelle anche di metà anno. «Come società siamo molto attenti al percorso scolastico, abbiamo previsto anche un riconoscimento al ragazzo che abbina meglio l’impegno sportivo con quello scolastico. Qualora si verifichi che qualcuno ha delle insufficienze da recuperare gli vengo incontro, dandogli il tempo di rimettersi in carreggiata esonerandolo temporaneamente da una delle sessioni settimanali di allenamento. La scuola viene prima di tutto: non tutti sfonderanno nel calcio, mentre è probabile che tra loro ci siano i futuri medici che ci cureranno, gli ingegneri che costruiranno le nostre case o i docenti che avranno cura dei nostri nipoti».

Alla Fiorentina, dove Vincenzo Vergine si è congedato dopo 14 anni di guida del settore giovanile, vanno particolarmente orgogliosi del liceo interno, nato nel 2012, rivolto anche a non tesserati del club. «La cosa che ci rende fieri», fanno sapere in una nota, «è che siamo stati tra i primi a promuovere la figura del tutor sportivo, oggi non solo riconosciuta in Europa, ma obbligatoria in tutte le società sportive professionistiche italiane. I tutor coniugano competenze e passione, promuovendo nei nostri atleti non solo il sapere ma la “voglia di sapere”. Un’educazione che li renda prima uomini che calciatori. Assieme alla Juventus Fc siamo stati, inoltre, i primi a batterci per il “diritto allo studio” per gli studenti atleti di alto livello, e fautori della normativa 279-18 che permette loro di vedersi riconosciute assenze giustificate, ad esempio, quelle per impegni agonistici».

Per il processo di formazione sempre più importanza ricoprono le società affiliate ai grandi club, che consentono alle giovani promesse una crescita più morbida, come spiega Luigi Lardone, presidente dell’Ostiamare, la società dove è cresciuto Daniele De Rossi, che da quest’anno è apparentata proprio con la Fiorentina. «Cercavamo un club di prima fascia che ci permettesse di essere un satellite dove far crescere qui dei prospetti locali senza il trauma di un trasferimento a 13 o 14 anni. Oggi i giovani sono più fragili caratterialmente, rispetto a qualche decennio fa, per questo si preferisce evitare un prematuro distacco dalla famiglia, garantendo comunque un insegnamento di alto livello. Per fare un esempio accademico, anche se il titolo è lo stesso, essere laureati in legge a Harvard non è la stessa cosa di esserlo a Tor Vergata. Se però io ho possibilità di formare i docenti di Tor Vergata a Harvard o di ospitare i docenti americani in Italia, anche il mio titolo cresce come livello accademico. Ecco, il club di Rocco Commisso per noi è Harvard».

Un aspetto delicato è quello dell’uso dei social network. Tutti i club hanno dei regolamenti interni sul corretto utilizzo, e in maniera più o meno palese tutti monitorano che cosa i propri giovani atleti postano su Instagram, Tiktok o Facebook. Francesco Morara, tecnico del Bologna Under 15, insiste con i ragazzi sul senso di appartenenza e di responsabilità: «I ragazzi, pur nei loro esuberanti quattordici anni, devono ricordarsi che rappresentano il Bologna Fc in ogni momento della loro vita, non solo in campo, ma anche quando escono la sera con gli amici, sui banchi di scuola o, appunto, sui social». «Una delle fasi più calde è quella del post-partita», aggiunge Pierluigi Carta, direttore sportivo e responsabile del settore giovanile del Cagliari calcio. «L’adrenalina della gara appena terminata può portare a pubblicare qualcosa di inopportuno, per questo la nostra attenzione è massima al fine di evitare problemi che potrebbero scatenarsi sui ragazzi o sull’immagine della società. Anche se giovani, non devono dimenticarsi mai di rappresentare un club unico, che rappresenta una storia, una terra, anche un popolo».

Situazione piuttosto ricorrente è poi quella di avere ragazzi nelle giovanili che in privato tifano per una squadra con colori diversi da quelli che indossano. «In questi casi invitiamo a soprassedere da attività social. Lo facciamo nel loro interesse, affinché non gli si debba ritorcere contro in un eventuale futuro professionistico», spiega Annalisa Novembre, project manager del settore giovanile dell’Inter. Richiamo immediato a Sandro Tonali, cui qualcuno quest’estate ricordò i post anti Inter scritti a 12 anni quando sembrava proprio sul punto di vestire la maglia nerazzurra. Il progetto Educational dell’Inter coinvolge tutti i ragazzi del settore giovanile, partendo dai piccoli, under 9, fino a chi, nella Primavera, inizia a sentire il profumo del professionismo. «Svolgiamo incontri su tematiche come il razzismo, il bullismo, il calcioscommesse, oltre a attività sportive con realtà meno fortunate come disputare partite con i ragazzi del carcere minorile Beccaria o organizzare il torneo oncologico pediatrico. La presenza negli ospedali si cerca di garantirla con visite dove partecipano atleti di tutte le formazioni, dalla prima squadra ai più piccoli e piccole. Un adolescente non dimenticherà mai un’esperienza di volontariato fatta con accanto il campione per cui fa il tifo la domenica». Giovani Rashford crescono. Forse.

Da Undici n° 36