Venticinque milioni per Nagelsmann. Per Mourinho “appena” sette che però fruttano un +21% in Borsa. Oggi i biglietti da visita delle società sono gli allenatori. Sono loro gli uomini-copertina, gli attori da mettere in locandina. Loro i volti da associare al club. L’ultima settimana ha fornito due esempi illuminanti. Due club così diversi tra loro, il Bayern Monaco e la Roma, eppure hanno effettuato la stessa scelta. Non hanno messo a segno il grande colpo sul calciomercato, il campo viene dopo. I calciatori sono elementi al servizio dell’alchimista, non il contrario. Il Bayern, per consolidarsi, ha puntato sull’enfant prodige, sull’uomo nuovo del calcio in Germania e non solo, la Roma, per ricostruire sé stessa e la propria credibilità, sul grande divo dai più considerato in declino, ma il cui arrivo suscita sempre un ohhhh di meraviglia.
Siamo lontani dai tempi in cui risuonava la frase «l’allenatore incide sì e no per un 20%». È da circa vent’anni che l’importanza dei tecnici è in continua crescita. Probabilmente dalla sera in cui, nel 2003, proprio José Mourinho alzò la Champions League da tecnico del Porto. E l’anno successivo venne chiamato da Abramovich con il compito di costruire il Chelsea, di renderlo un grande club. Che è un obiettivo diverso dalla “semplice” vittoria. L’allenatore è diventato una figura molto più complessa, più centrale. Difficilmente assimilabile ad altri profili professionali. È una sorta di amministratore delegato, per varie ragioni. È la figura che concorre alla riconoscibilità di un’azienda. Ne diventa l’alfiere comunicativo. Ancor più in un’epoca contraddistinta da un anonimato diffuso dei calciatori, attenti a non andare mai oltre il Bignami delle frasi fatte. È sempre più raro imbattersi in giocatori di personalità, che lascino il segno. Sono pochi, pochissimi.
I riflettori sono perennemente accesi sugli uomini della panchina. Il cui valore, persino filosofico, viene spesso accresciuto oltre misura. È la comunicazione. È l’occhio di bue che decide se le tue parole contano, o meno. E l’occhio di bue si accende su di loro. Prima e dopo la partita, in maniera spietata per chi non ne è all’altezza. Gli allenatori rappresentano, di fatto, società multimilionarie, talvolta multinazionali. Ne sono gli ambasciatori. E vengono esaminati, studiati a fondo, proprio come i manager, anche per la loro capacità di fronteggiare le difficoltà, di attraversare le mareggiate. Del resto a loro sono affidati bilanci importanti, pesanti.
In una recente intervista a Repubblica, il presidente del Leeds, Andrea Radrizzani, ha raccontato la prima trattativa con Marcelo Bielsa. Il tecnico rosarino non rispose alla telefonata, nella notte guardò una decina di partite del Leeds, alcune delle giovanili e l’indomani chiamò: «Al primo punto del suo programma», ricorda Radrizzani, «c’era la riorganizzazione del centro sportivo. S’era procurato le planimetrie. Restai a bocca aperta. Poi è anche molto bravo a farsi pagare, eh! Il suo ingaggio è il terzo o il quarto della Premier, ma quei soldi li merita tutti per come trasforma la cultura di un club aumentandone il valore». È la frase chiave. Che potrebbe essere utilizzata per una fantomatica causa di lavoro della categoria per provare a farsi riconoscere lo status di CEO.
È quel che fece Mourinho al Chelsea. Non la causa, l’aumento di valore. Abramovich gli consegnò le chiavi di una società ambiziosa e il portoghese gliele restituì con la tessera d’iscrizione al club dei grandi d’Europa. Tessera tuttora valida. I successi, alcuni dei quali conseguiti senza di lui, ne furono soltanto la conseguenza. La storia del Chelsea è lì a ricordarci che il pallone non è una scienza né lo sarà mai. Perché c’è tanto Mourinho nella Champions del 2012, l’unica vinta dai Blues e da un club londinese, in finale contro il Bayern. In panchina non c’era Mou, e nemmeno Avraham Grant che quattro anni prima guardò John Terry scivolare dal dischetto in una delle scene immortali della storia del calcio. No. Quella Coppa la sollevò Roberto Di Matteo che ormai non allena più da cinque anni. Chiediamo: c’è qualcuno disposto a dire che Di Matteo ha contribuito più di Mourinho alla crescita del Chelsea?
È arduo stabilire quanto valga un allenatore. Possiamo però dire che la lettura del palmarés è oramai riduttiva. Viviamo tempi in cui a vincere sono sempre gli stessi. Proprio il Bayern lo ha dimostrato: ha investito 25 milioni per Nagelsmann, un allenatore che potremmo definire zeru tituli, in omaggio a Mou. Vale il punto di partenza e il punto d’arrivo. E il tecnico 33enne ha irrobustito il Lipsia, lo ha portato fino alla semifinale di Champions, gli ha conferito struttura, solidità. Non c’è scientificità nel calcio. Non ci sono statistiche per misurare l’apporto di un allenatore. C’è però cultura d’impresa. Cultura del lavoro. E del management. Ci sono termini come valore, e suoi derivati come plusvalenza. Sono questi alcuni dei parametri per giudicare il lavoro di un tecnico. Vale per tutti. Anche per quelli più all’antica, che si ostinano a definirsi solo e soltanto uomini di campo. Anche loro vengono valutati in base al contributo alla crescita dell’azienda. Maurizio Sarri, a Napoli, ha sì sfiorato lo scudetto con i famosi 91 punti, ma ha anche e soprattutto condotto tre anni consecutivi la squadra in Champions, ha accresciuto il valore della rosa, grazie al suo lavoro ha consentito la cessione di Jorginho a 57 milioni di euro, ha fatto sì che Koulibaly ne valesse circa 80. Sono voci che nessuno troverà mai in un albo d’oro, ma – canterebbe De Gregori – è da questi particolari che si giudica un allenatore.
Oggi l’allenatore è il vero capo del personale, è il responsabile della formazione. Non quella che un tempo era dall’uno all’undici. La formazione professionale. È il soggetto con più responsabilità. E di conseguenze è pagato di più. Deve esserlo, anche se può essere licenziato dall’oggi al domani. L’Atalanta non è soltanto Gasperini. Così come il Lille non è soltanto Galtier. Ma c’è tanto del loro lavoro dietro la valorizzazione dei calciatori e la crescita delle due società. Chissà oggi quanto guadagnerebbe Gasperini se nel suo contratto avesse inserito stock option, oppure premi simili. Quanto c’è di suo nel bilancio dell’Atalanta chiuso in attivo di 51 milioni anche nell’anno del Covid?
Proprio in virtù di tutto questo, non esiste una scala univoca per giudicare il valore dei tecnici. Ma sono sempre più rari quegli allenatori bravi anche per la capacità che hanno di farsi acquistare calciatori a prezzi stellari. È una qualità pure quella, non c’è dubbio. Investire, diciamo anche svenarsi, in cambio di un ritorno quasi sicuro ed immediato: la vittoria. Pensiamo ad Antonio Conte, che ha riportato lo scudetto all’Inter. Dieci anni dopo Mourinho. E anche in questo caso, l’allenatore ha inciso nella cultura aziendale del suo club. Al punto che ne ha fatto cambiare l’inno – “Pazza Inter” – che, a suo dire, trasmetteva un’immagine sbagliata, perdente. È una scelta da allenatore, da signore che conosce solo il calcio, o da manager d’impresa? Poi, ovviamente, devi anche essere in grado di fare spendere bene i soldi. Di far acquistare Lukaku e Barella. Anche Guardiola non vince soltanto. Definisce una riconoscibilità. Vince, vuole vincere con un calcio stellare, alzando sempre l’asticella. Fa spendere tanti soldi, ma risponde anche al mandato aziendale: vincere lasciando un segno.
“Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”, e ritorna Mourinho che è stato il nostro faro in questo viaggio. E che è ancora in grado di spiazzare tutti, accettando Roma poche settimane dopo la fine dell’esperienza negativa al Tottenham. È lui che ha aperto i confini di questa professione. Nagelsmann vale 25 milioni perché il Bayern è convinto che in prospettiva potrà farne guadagnare di più al club: in termini di bilancio, di immagine, di crescita del brand. E parliamo di un club all’avanguardia, avanti di alcuni anni rispetto anche ad altri grandi società di calcio. Il Bayern, così come la Roma, ha detto a tutti che la figura dell’ex calciatore con il cappellino in testa, i conetti in mano per le sedute d’allenamento, è sempre più sbiadita. È una porzione del lavoro. Importante. Possiamo anche dire fondamentale. Ma non è più la sola. Non è un caso, poi, che questo cambiamento di prospettiva si stia materializzando a partire dalla Germania, un Paese in cui il mercato degli allenatori è simile a quello dei calciatori già da molti anni. Anzi, è anche più dinamico: i cambi di panchina vengono annunciati con largo anticipo, spesso a stagione ancora in corso; proprio Nagelsmann ha guidato per un’intera annata (2018/19) l’Hoffenheim nonostante il Lipsia avesse già annunciato il suo arrivo. Sono quattro le squadre di Bundes che hanno già comunicato il cambio di tecnico a partire dalla prossima estate (Bayer e Lipsia, ovviamente, e poi Borussia Dortmund e Borussia Mönchengladbach), e tre di queste hanno scelto un allenatore che lavorava già nel massimo campionato tedesco (Nagelsmann, Rose e Hütter). Anche altri club, negli ultimi dieci anni, hanno letteralmente acquistato un allenatore da un’altra società, pagando indennizzi anche milionari: l’ha fatto il Chelsea con Villas-Boas e Sarri, l’ha fatto lo Sporting con Ruben Amorím, l’ha fatto il Leicester con Rodgers.
Quel che sta avvenendo in Germania e queste operazioni ripetute sono un segnale chiaro. Anzi: inequivocabile. Del resto le squadre di calcio sono come le aziende: perennemente alla ricerca di personale qualificato. Quindi anche di management qualificato. Più crei valore d’impresa, più vali sul mercato. Più dimostri di saper sopportare le responsabilità, più sei conteso dai grandi gruppi. I calciatori dipendono da te, non più il contrario. Perciò i club sono disposti a spendere tanto per questa figura. Nagelsmann e Mourinho ne sono la conferma. C’era una volta la centralità del calciomercato, ora conta di più quello degli allenatori.