Kobe Bryant e Michael Jordan: storia di un’amicizia

Sul parquet avevano la stessa mentalità competitiva, la stessa leadership. Ma erano in sintonia e si comprendevano profondamente anche nella vita privata.

Il 24 febbraio 2020, durante il Kobe Bryant memorial allo Staples Center, prende la parola anche Michael Jordan. In quell’occasione difficile, con il pubblico presente e più in generale con il mondo ancora incredulo per la tragedia che ha colpito l’ex campione dei Lakers, la figlia Gianna e altre sette persone a bordo dell’elicottero precipitato meno di un mese prima, e pur nel contesto di un discorso evidentemente molto controllato, Jordan riesce a inserire almeno un momento di rivelazione, quando definisce il perimetro esatto del rapporto tra lui e Kobe: un legame strettissimo che gli appassionati e gli addetti ai lavori avevano di certo intuito, ma di cui soltanto poche persone conoscevano davvero la profondità. Quel giorno Jordan dice: «Potevamo parlare di ogni cosa riguardante il basket ma anche di ogni cosa riguardante la vita. Raramente crescendo capita di incontrare degli amici con cui avere delle conversazioni del genere. Ed è ancora più raro crescere affrontando degli avversari e avere delle conversazioni del genere».

A ruoli inversi, è quanto anche Kobe Bryant sostiene all’inizio della quinta puntata di The Last Dance, la miniserie sulla cavalcata dei Chicago Bulls 1997-1998 rilasciata da Netflix a poche settimane dall’incidente del 26 gennaio 2020. Nei pochi commoventi frangenti in cui Kobe compare, sostiene che non avrebbe mai vinto cinque titoli se non ci fosse stato Jordan cui ispirarsi, ma più in generale fa capire che lui non sarebbe mai diventato l’uomo e il giocatore che è diventato se non avesse potuto confrontarsi con Jordan, discutere con lui, condividere idee e visioni tecniche, e non semplicemente tentare di superarlo come cestista.

Kobe vede per la prima volta Jordan in azione nell’estate del 1984, prima di trasferirsi in Italia. La Nazionale Olimpica americana, composta da giocatori del college, si sta preparando per i Giochi di Los Angeles e affronta una selezione di professionisti. A colpire Kobe è soprattutto una giocata: Jordan prende palla, parte in palleggio e conclude l’azione andando a schiacciare in testa a Magic Johnson. «Chi era quel ragazzino?», ricorda di aver pensato Kobe,. «Mi stava antipatico perché Magic era il mio idolo».

Negli anni di High School alla Lower Merion, il talento di Kobe sboccia con prepotenza e gli emissari di adidas individuano in lui il potenziale brand da contrapporre proprio a quello di Jordan, che da anni sta facendo le fortune della Nike. Le movenze di Kobe lo ricordano, l’attitudine di Kobe lo ricorda, e soprattutto Kobe non nasconde le proprie ambizioni. Al contrario: dice di voler diventare il più bravo di tutti, proprio il ruolo di cui Jordan ha preso residenza, vincendo tre titoli di seguito, e poi ricominciando a vincere dopo la parentesi nel baseball.

È una maledizione che ha rovinato diversi ottimi giocatori, quella di essere individuati come i possibili eredi di Michael Jordan dai grandi burattinai del marketing, ma Kobe è diverso, lo è nella mentalità, nell’immaginazione, e nella voglia di imparare. Kobe è (anche) uno scienziato, vuole conoscere il gioco in ogni suo aspetto, e studia Jordan nei minimi dettagli per riuscire a replicarne i movimenti alla perfezione. Ma ancora non basta, Kobe vuole interrogare Jordan personalmente, e non perde l’occasione per farlo.

Tutti gli appassionati conoscono la foto che li ritrae piegati sulle ginocchia mentre parlano durante una partita Bulls-Lakers del dicembre 1997. Kobe aveva sfruttato quel momento di sospensione per chiedere a Jordan qualche dettaglio tecnico riguardo un movimento in post basso. Osservando con attenzione l’intera sequenza è possibile cogliere una lieve esitazione iniziale di Jordan, come se fosse infastidito dalla sfacciataggine di questo diciannovenne, per poi cambiare approccio e rispondere in modo molto dettagliato alla richiesta. È bello pensare che sia proprio quello l’attimo dell’epifania, il punto di luce in cui il maestro e l’erede si riconoscono. L’estremo spirito competitivo di due ossessivi come loro non necessariamente preclude l’empatia.

È la stessa sensazione che si percepisce da un’altra scena della quinta puntata di The Last Dance, quella in cui si vede Jordan parlare con Tim Hardaway negli spogliatoi del Madison Square Garden prima dell’All-Star Game 1998. Riferendosi a Kobe Jordan dice: «Quel ragazzino dei Lakers sfiderà tutti in uno-contro-uno». That little Laker boy, lo chiama, sembrerebbe quasi un modo per sminuirlo, ma il suo sguardo e il sorrisetto sornione svelano piuttosto una vibrazione per ciò che potrebbe accadere, come se Jordan pensasse “Ero venuto qui a divertirmi, e invece…”. Quella notte, la sfida tra i due sarà serratissima e memorabile, e nelle interviste del prima e dopo partita entrambi saranno molto accorti nell’esprimere grande rispetto per l’avversario.

Una volta Jerry West, ex-campione e General Manager dei Lakers nei primi anni Nba di Kobe, aveva colto bene l’attrazione magnetica tra loro: «Se osservi la loro interazione durante una partita, Kobe sembra una calamita che va verso Michael. Di solito Michael non interagiva davvero con molti giocatori quando era in campo. Giocava. Ma per qualche ragione, aveva un’affinità per lui». Ecco il punto: tra i due scorreva un’energia particolare, e lo scambio era reciproco.

Micheal Jordan e Kobe Bryant hanno giocato entrambi in Nba per quattro stagioni: tra il 1996 e il 1998, e poi dal 2001 al 2003, dopo che MJ decise di tornare a giocare con i Washington Wizards (Vince Bucci/AFP via Getty Images)

Anche dopo il ritiro – i ritiri – di Jordan, sarà sempre la sua aura ad accompagnare le gesta di Kobe, più ancora dei confronti diretti con i nuovi fenomeni che nel frattempo hanno popolato la Nba. Continuerà a essere Jordan il termine di confronto tecnico per affinare anche i più minimi dettagli offensivi e difensivi, sarà Jordan il suo modello di leader che nel tempo è riuscito a risolvere il problema matematico nel basket – la fusione del grande solista nei cinque –, sarà l’evoluzione del gioco di Jordan quella da ricercare negli ultimi anni di carriera quando è necessario scendere a patti con la perdita dell’esplosività atletica, e più in generale saranno sempre i sei anelli di Jordan quelli da inseguire e possibilmente superare. Persino Dear basketball, la famosissima poesia di addio alla pallacanestro scritta da Kobe durante la sua ultima stagione, sarà in qualche modo un richiamo a Jordan, il quale aveva pubblicato a sua volta una lettera di addio alla pallacanestro nel 2003, pur molto diversa nei contenuti e nella struttura, dopo il ritiro definitivo.

Alla prova dei fatti Kobe ha superato Jordan nella classifica dei punti segnati e nelle finali disputate, non in quella dei titoli vinti. Ma è davvero poco interessante dedicarsi al gioco dei numeri, o profondersi in fumosi ragionamenti per stabilire chi fosse meglio e in cosa. Più fruttuoso, e allo stesso tempo più stupefacente, è elevarsi per osservare la loro vicenda dall’alto. In questo senso, ripercorrere la storia di Kobe dall’affascinante prospettiva dell’amicizia e rivalità con Jordan rimane uno dei modi più efficaci per comprendere la grandezza non solo sua ma di entrambi, del maestro e del suo unico vero erede, due tra i più mirabili ibridi tra animale e angelo che abbiano mai calcato un parquet, per dirla con David Foster Wallace. Due esseri umani speciali, complessi, ossessionati dalla competizione e dalla voglia di vincere e per questo disposti a tutto o quasi, anche in termini di conflitto dentro allo spogliatoio o addirittura in famiglia, che non soltanto si specchiano e si comprendono, ma arrivano a costruire un rapporto di fratellanza, cioè impietoso, diretto e costruttivo. Un’autentica e meravigliosa rarità, ha detto bene Michael Jordan durante il Kobe Bryant memorial.