La carriera da calciatore di Andriy Shevchenko comincia con una seconda opportunità. Nel 1986, l’Università per l’Educazione Fisica e lo Sport di Kiev gli nega l’accesso alla facoltà perché non è abbastanza bravo nel dribbling (…); questa bocciatura convince suo padre Nikolaj che il futuro del ragazzo è nell’esercito. Convinto del talento calcistico di Andriy a quel punto c’è solo Aleksandr Špakov, osservatore veterano della Dinamo Kiev, maestro nell’arte del convincimento: insiste con papà Nikolaj affinché conceda ad Andriy un’altra chance con il calcio, male che vada il pallone aiuterà il ragazzo a raggiungere la forma fisica necessaria a passare gli esami fisici dei militari. Nikolaj accetta, Andriy entra nelle giovanili della Dinamo Kiev, il resto lo si può leggere nelle pagine del libro di storia del calcio. Per farla breve: aveva ragione Špakov.
La carriera da allenatore di Andriy Shevchenko comincia con una seconda opportunità. Dopo la mancata qualificazione ai Mondiali di Russia del 2018, le insinuazioni degli scettici sembravano ormai verità: nel migliore dei casi non è pronto, nel peggiore non è capace. La Zbirna (il nome con cui gli ucraini chiamano la Nazionale) sembrava condannata a un altro ciclo di sconfitte, rimpianti, mediocrità: d’altronde, che altro ci si poteva aspettare da uno battezzato allenatore da Mykhaylo Fomenko? Per gli scettici, l’inadeguatezza di Shevchenko stava in ogni scelta e in tutti i dettagli, se ne potevano trovare indizi sparsi tra il passato e il presente. La scelta di Mauro Tassotti e di Andrea Maldera come vice era lì a dimostrare che Sheva fosse consapevole della sua insipienza tattica, delle convinzioni fragili, dell’esperienza inesistente, delle aspettative eccessive. I critici trovano nel gioco della Nazionale le stesse banalità che ascoltano nelle conferenze stampa del commissario tecnico: l’accusa conclude che i problemi di Shevchenko cominciano con la parola, strumento che padroneggia poco e male, con il quale non riesce a né convincere né a ispirare, che la urli da bordocampo o la sussurri davanti a un microfono, che la usi per spiegare un movimento ai calciatori o per giustificare una convocazione ai giornalisti.
Come quella volta nel 1986, del talento di Shevchenko resta convinta solo una persona: il presidente della federcalcio ucraina Andriy Pavelko, certo di fare un favore al ct in difficoltà continuando a paragonarlo a Pep Guardiola e insistendo sul suo passato da calciatore più forte della storia d’Ucraina (dalla caduta del Muro di Berlino a oggi, quantomeno). Pavelko magari è mosso dalle migliori intenzioni e da una sincera convinzione, ma a questo punto un certo numero di giornalisti e una buona parte dell’opinione pubblica sono convinti che Shevchenko sia solo una pedina nella guerra civile che sta sfasciando il calcio ucraino: Pavelko da una parte e i due fratelli Surkis dall’altra – si tratta di Igor, presidente della Dinamo Kiev, e soprattutto di Grigory, ex presidente della Federcalcio ucraina ed ex vice-presidente Uefa. I maligni dicono che la panchina della Nazionale è solo il prezzo da pagare perché Sheva possa proseguire una carriera politica impantanata nell’1,58% di consenso popolare raccolto nelle ultime elezioni con la lista Ucraina – Avanti!, che il calcio sia l’unica via che può portare un ex Pallone d’Oro in Parlamento.
Come nel 1986, Shevchenko (ri)comincia dal fallimento, capisce come ce la farà in futuro spiegandosi perché non ci è riuscito in passato. Nei primi due anni da commissario tecnico si affida a Mauro Tassotti per la fase difensiva e allo spagnolo Raul Riancho per quella offensiva. Di mestiere Riancho farebbe il preparatore atletico, ma in dieci anni passati tra Rubin Kazan e Dinamo Kiev si è fatto guru: l’uomo che è riuscito a convincere i post-sovietici, ultra-conservatori e super-difensivisti, che il futuro è nel calcio posizionale. Quando si legge il suo nome nello staff tecnico di Shevchenko, la convinzione è che Riancho non sia un vice, piuttosto un allenatore-ombra. Nel 2018 il coach spagnolo lascia la Zbirna per andarsene allo Spartak Mosca a raccogliere i cocci lasciati da Massimo Carrera: durerà soltanto tre settimane, perché Riancho è di quei personaggi larger than life le cui scelte sono impossibili da spiegare con gli strumenti della razionalità. Andato via lui, ci si aspetta che la Zbirna perda quel poco di certezze guadagnate dal 2016 in poi. E invece, sorprendentemente, l’addio di Riancho è il vero inizio di Shevchenko.
Andrea Maldera è un altro ex-Milan che Shevchenko decide di avere con sé nella sua prima esperienza da allenatore. Maldera è un analista, uno che quando vuole riposare gli occhi dopo ore e ore di video visualizzati sullo schermo di un laptop, accende il tablet e cerca di ricordarsi di attivare la luce notturna. Partito Riancho, Maldera diventa (ancora più) importante: «In una Nazionale ci si concentra molto di più sui singoli giocatori che sulla squadra», spiega in più occasioni. Shevchenko ricomincia la sua carriera di allenatore partendo da ciò che conosce meglio del calcio: i giocatori. Abbandona la posa da commissario tecnico e supera la linea che separa il campo dalla panchina: è vero che la parola non sarà mai il suo mestiere, ma il pallone gli basta a farsi capire. Shevchenko si ricorda ancora di quando il calciatore era lui e Oleg Blochin l’allenatore: Blochin era convinto che si potesse costruire la grandezza futura limitandosi a raccontare la gloria passata, e allora parlava spesso e volentieri di sé, del Pallone d’Oro e dell’URSS. Shevchenko fa il contrario, sa che non ha senso aspettarsi dagli altri ciò che lui ha preteso da se stesso. Mentre lui impara a fare il ct giocando a pallone con i suoi giocatori, Tassotti osserva da bordocampo e inizia a costruire una delle difese più solide e meno battute dei gironi di qualificazione all’Europeo del 2020 (che però si terrà nel 2021, ovvero tra pochi giorni): quattro gol subiti in otto partite giocate.
Come tutti gli allenatori che raccontano la loro idea di calcio parlando di attacco e creatività, anche Shevchenko sa che la premessa indispensabile, inevitabile, è una fase difensiva che funzioni«Voglio che la squadra giochi un calcio propositivo. Ma deve esserci equilibrio. I giocatori devono capire quando attaccare e quando difendere, quando tenere il possesso, quando pressare, quando indietreggiare». Per una leggenda della Dinamo, deve essere difficile ammettere l’importanza dello Shakhtar nella storia recente del calcio ucraino: «È cominciato tutto con Lucescu, che chiedeva di non limitarsi a buttare il pallone in avanti. Poi Fonseca, che proibiva il lancio lungo. Shevchenko la pensa allo stesso modo: non bisogna avere paura, ma non si deve nemmeno essere vanesi», dice il capitano Pyatov (che però è dello Shaktar, quindi vai a sapere quanto è sincero).
Il tentativo di imporre un modo nuovo di giocare in uno dei Paesi più conservatori d’Europa, non solo dal punto di vista calcistico, ha costretto Shevchenko a un brutale (e necessario) ricambio generazionale: Zinchenko, Malinovsky, Matvienko, Yaremchuk, Mikolenko, Tsygankov, Marlos e Moraes sono stati costretti all’età adulta dalle necessità del ct, deciso a liberare la Nazionale dalla dipendenza da e ossessione per Konoplyanka e Yarmolenko. Tutte queste scelte hanno prodotto successi contro la Serbia, il Portogallo, la Spagna, la vittoria del girone B della Nations League nel 2018, un 2019 senza sconfitte, la qualificazione all’Europeo nel 2020, e anche inevitabili pettegolezzi che vogliono Paolo Maldini intento a convincere la proprietà milanista che Shevchenko sia l’allenatore giusto. Non solo per il futuro, ma anche adesso, subito. «Mi piacerebbe allenare il Milan, un giorno. Ho il Milan nel cuore, amo i tifosi. Vedremo, ma questo è uno dei miei obiettivi. In ogni caso, ora penso solo alla Nazionale ucraina», questa è la risposta di Shevchenko a chi gli parla del viaggio che farà, il terzo della sua vita, verso Milano.
In due anni Shevchenko è riuscito a rimettere la sua Nazionale al centro di un dibattito calcistico che va avanti dal 9 novembre del 1989: cosa viene dopo l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche? L’Ucraina è sempre sembrata il capitolo successivo nella storia del calcio dell’Est: l’ucraino Valeriy Lobanovskiy – «Il più grande allenatore della nostra storia, il primo a introdurre la scienza nel calcio»‚ ricorda Shevchenko, il cui rapporto con il Colonello è stato raccontato abbastanza altrove da poterlo omettere qui – era il commissario tecnico della fenomenale URSS del Mondiale 1986 e di quella che vinse l’Europeo del 1988; e la formazione titolare di quella Nazionale era composta quasi soltanto da ucraini, con i Palloni d’Oro Blochin e Belanov. C’è la sensazione che l’Ucraina di Shevchenko sia la fine di un cammino cominciato più di trent’anni fa, la chiusura di un cerchio che conferma che il calcio vive di cicli. E che a volte questi cicli possono cominciare anche con una seconda opportunità.