Tre cose sulla 37esima giornata di Serie A

L'importanza di Cuadrado per la Juve, l'Atalanta in Champions League, la salvezza dello Spezia.

 

Juan Cuadrado, un vero simbolo della Juve
È difficile giudicare la stagione di Juan Cuadrado senza tener conto delle difficoltà della Juventus. Non è un caso, insomma, che i due gol contro l’Inter siano stati i primi del suo campionato, della sua stagione. Allo stesso tempo, però, l’annata della squadra bianconera è stata del tutto simile alla gara contro i nerazzurri, nel senso che ha avuto lo stesso sviluppo/andamento: difficoltà, difficoltà, difficoltà, e poi ci affidiamo a Cuadrado. Una scelta che può pagare, che in questo caso ha pagato, ma che in altre situazioni non è bastata. Non per colpa dell’esterno colombiano, però.

Tutto questo è scritto nei numeri. Più precisamente nel numero degli assist serviti: sono undici in campionato, sei in Champions League, uno in Coppa Italia. Il totale, ovviamente 18, non ha eguali nella storia juventina di Cuadrado. E neanche nella sua carriera. Per trovare cifre simili, bisogna arrivare fino alla stagione 2013/14, quando il colombiano era la primissima fonte di gioco, anzi la vera e propria attrazione nella Fiorentina di Vincenzo Montella: in totale, allora, Cuadrado segnò 14 volte e servì 8 assist decisivi considerando tutte le competizioni. Ma, ripetiamo, era una Fiorentina che dipendeva principalmente da lui. Dalla sua vena creativa, dalla sua velocità irrefrenabile. Oggi, se vogliamo, uno dei problemi della Juve è stato proprio questa dipendenza eccessiva da Cuadrado. A un certo punto di tante partite, la squadra di Pirlo ha finito per rifugiarsi nel crossing game del colombiano, perché non aveva ulteriori sbocchi di gioco, perché non riusciva a trovarli. Contro l’Inter non è andata proprio così, la prestazione dei bianconeri è stata migliore rispetto ad altre occasioni, ma alla fine sono serviti un tiro (deviato) e una grande percussione del colombiano per determinare i due gol decisivi. Neanche questo è un caso, ecco, e proprio per questo non è una buona notizia sullo stato di salute della Juventus.

Detto questo, però, Juan Cuadrado deve essere elogiato: per il suo contributo in questa stagione, ovviamente, un contributo che si è manifestato in tutte le occasioni, non sempre in maniera decisiva, perché è raro – o comunque è difficile – che un solo giocatore possa fare davvero la differenza, specie nel calcio di primo livello. Cuadrado però va elogiato anche per tutto il resto della sua carriera alla Juve: è sempre stato un calciatore centrale nei vari progetti tecnico-tattici che hanno scandito gli ultimi anni della storia bianconera; ha sempre interpretato il suo ruolo – anzi: tantissimi ruoli, almeno in campo – con grande disponibilità e offrendo sempre una grande risposta. Se finora non è stato celebrato come un simbolo di questi anni gloriosi, è il momento di farlo ora, perché la malinconia da fine ciclo non può cancellare, tantomeno offuscare, tutto quanto di bello c’è stato in passato.

Juventus-Inter 3-2

Cosa significa la terza qualificazione in Champions dell’Atalanta

Prima di questo triennio meraviglioso, l’Atalanta non aveva mai raggiunto il tabellone principale delle coppe europee per tre stagioni di fila. Al termine della stagione 2017/18, infatti, gli uomini di Gasperini erano effettivamente qualificati all’Europa League, ma poi in estate persero contro il Copenaghen nell’ultimo dei turni preliminari, un anno dopo la prima partecipazione al torneo. Sembra che sia passata una vita, e invece non sono trascorsi nemmeno tre anni. È proprio questa la cosa più significativa, la notizia più sensazionale: la qualificazione dell’Atalanta ai gironi di Champions League, la terza consecutiva, non è stata salutata come un’impresa, ma come un atto dovuto, come una conseguenza inevitabile di un progetto perfetto – dal punto di vista calcistico ed economico. Anzi, il fatto che la vittoria decisiva (3-4 in casa del Genoa) sia arrivata con qualche patema, dopo che la squadra nerazzurra aveva iniziato la gara con il solito piglio devastante, è stato vissuto come un intoppo, come una stonatura nel corso di un concerto impeccabile.

Lo stesso discorso vale anche per l’altro grande appuntamento che attende il club bergamasco. Tra poche ore la sfida con la Juventus di Pirlo deciderà la squadra vincitrice della Coppa Italia, e se due anni fa la finale (persa) con la Lazio venne salutata come un ulteriore step di crescita, ora all’Atalanta si può – anzi: si deve – chiedere di vincere, di battere i bianconeri. Perché sarebbe un modo per suggellare un percorso fantastico, con il secondo trofeo nella storia della società, a quasi sessant’anni di distanza dall’altra Coppa Italia vinta nel 1963. E poi perché sollevare una coppa al cielo sarebbe normale, sarebbe anche giusto, anzi ora come ora sono Zapata, Muriel, De Roon e tutti gli altri giocatori di Gasperini, a essere favoriti; hanno conquistato questo status travolgendo qualsiasi ostacolo negli ultimi tre anni, l’hanno fatto senza rinunciare a un calcio radicale, mai visto prima in Serie A, portando avanti il loro approccio – che poi è quello del loro allenatore – senza rinnegarlo mai, mostrando come il lavoro sul campo e un’attenta politica societaria possa portare a risultati giganteschi. La terza qualificazione in Champions League dell’Atalanta significa soprattutto questo: è un successo costruito in maniera lineare, logica, è la grande vittoria di un calcio imprenditoriale e che sa determinare il proprio destino, con la forza delle idee, dell’attesa, della fiducia. Dell’innovazione continua.

Genoa-Atalanta 3-4

La salvezza è il giusto premio al lavoro dello Spezia

Per lo Spezia vale lo stesso identico discorso appena fatto per l’Atalanta, come se la squadra di Italiano fosse una copia-carbone di quella di Gasperini, come se la società ligure (che nel frattempo ha cambiato proprietà, passando dal patron Gabriele Volpi a un gruppo di investitori americani) avesse imparato in una scuola di sport management aperta e gestita dalla famiglia Percassi. Siamo in una dimensione decisamente inferiore, almeno per il momento, ma la salvezza dello Spezia è stata costruita allo stesso modo: partendo da un’identità di gioco definita e rifinita, inserendo giocatori anche poco conosciuti, ma perfettamente funzionali a questa impostazione di base. Al resto ci ha pensato l’allenatore, che non ha mai rinnegato la propria filosofia e così ha costruito una salvezza che non deve essere vista come un’impresa, piuttosto come un premio – meritato, ben proporzionato – per il lavoro svolto finora.

La partita (stra)vinta contro il Torino, se possibile, ha sancito proprio questa differenza con i granata, così come con altri club – anche più ricchi, più blasonati – che hanno vissuto una stagione difficile: da una parte c’era una squadra-progetto, un gruppo di giocatori con un’idea, e con le qualità fisiche e tecniche per metterla in pratica; dall’altra, invece, c’era un presunto insieme di individualità tenute insieme solo dalla volontà di raggiungere un risultato. È finita 4-1, è finita con la festa dello Spezia, con i gol di Saponara, Nzola ed Erlic, giocatori diversissimi tra di loro – per caratteristiche, per esperienza, per prospettive – che però sono stati scelti e assemblati nella maniera giusta. Esattamente come tutti gli altri protagonisti della stagione, i giovani Maggiore, Pobega, Marchizza e Agudelo, i veterani Terzi e Farias, e poi Ricci, Verde, Estévez, Léo Sena. Tutti questi elementi sono stati mixati sapientemente dal vero uomo decisivo di questa squadra: Vincenzo Italiano. Ora è quasi inevitabile l’addio, l’allenatore siculo-tedesco è destinato a una squadra e a una società di livello più alto, ma nel frattempo lo Spezia giocherà un altro campionato in Serie A e lo farà potendo contare su un progetto da cui ripartire, su un modello in cui continuare a investire.

Spezia-Torino 4-1