C’è una foto, a pagina 183 di Maradona: «Non sarò mai un uomo comune» di Gianni Minà (minimum fax, 2021), nell’inquadratura ci sono Maradona, Minà e Stefano Ceci, è stata scattata a Dubai nel 2013. I tre sono su dei gradini, davanti a loro c’è l’acqua. Maradona è più in basso rispetto a Minà, guarda davanti a sé e sul viso ha un’espressione serena, quasi di gioia. Il giornalista, un paio di gradini più sopra, ha le mani in tasca e guarda nella stessa direzione, sorride. Immaginando cosa rimane fuori dallo scatto, non faccio fatica a credere che si stia guardando qualcosa indicata dal fuoriclasse argentino. La fotografia mi colpisce perché Maradona ha l’aria che poche altre volte gli ho vista dipinta sul viso. Un misto di gioia adolescenziale e di incredulità, sorretto da uno sguardo fiero.
Minà aveva raggiunto Diego a Dubai per un’intervista, una delle tre (tutte molto belle) inserite in questo libro, intercettando una fase serena della sua vita, una delle poche. Maradona racconta a Minà di aver trovato la pace a Dubai, almeno in quel periodo, e di essere riuscito ad allontanarsi dall’invidia, dall’odio argentino, sono proprio sue parole. In effetti, dalla chiacchierata, si percepisce un uomo quasi in pace, ma comunque battagliero, inesorabilmente sincero. Minà sottolinea come si trovi davanti un uomo attraversato anche da una certa amarezza, disposto di nuovo – e soltanto con il giornalista italiano – ad aprirsi e a riparlare con disprezzo della Fifa, di Havelange e di Blatter, di gioco inesorabilmente truccato, perché è truccata la fonte, chi comanda. In uno dei passaggi più belli, argomentando circa l’incapacità (tra le altre cose) dei due dirigenti, Maradona dice qualcosa circa l’inganno: «Io invece penso che, nel calcio, il dribbling serva solo in campo: la prodezza è far finta di andare a destra e schizzare invece sulla sinistra. Questo è l’unico inganno accettabile per i tifosi». Non ricordavo questa frase e mi domando se davvero noi tifosi, appassionati, siamo ancora così, o se invece, nel tempo, abbiamo imparato a cedere qualcosa, accettando l’imbroglio come una cosa normale, basta che nessuno ci tolga quell’ora e mezza, non importa se preparata a tavolino o meno.
Gianni Minà è un giornalista eccezionale, lo è sempre stato, capace di passione e di fare informazione in maniera limpida, approfondita. La storia che racconta questo libro è quella del legame forte, dell’amicizia tra il giornalista e il fuoriclasse. Un’amicizia le cui origini vanno cercate nei giorni dell’arrivo di Maradona a Napoli, nel 1984, e che è sbocciata durante i Mondiali del 1986. Da quei giorni, l’unica persona a cui il più forte calciatore di tutti i tempi si sia mai raccontato – raccontato sul serio – è stata Minà.
Il libro ha un sottotitolo – Il calcio al tempo di Diego – che ho trovato da subito molto interessante. Non si parla solo degli anni della carriera di Maradona e di quelli immediatamente successivi, il tempo è anche scansione ritmica degli avvenimenti, è la sintesi di come sono andate le cose per Diego, è la somma algebrica dei fatti, tra pene e gioie, tra debolezze e prodezze. Maradona davvero non è stato un uomo comune e leggendo le pagine di Minà capiamo meglio o ci ricordiamo perché. Il viaggio raccoglie numerosi articoli, le tre interviste (come detto) e brani che contestualizzano un periodo, mettono in fila i fatti. Minà è una specie di miniera anche per chi, come me, di Maradona conosce quasi tutto, ma c’è sempre qualcosa di nuovo dietro a un uomo così complesso, una luce, un punto di vista che illumina una frangente. Minà vuole bene a Diego, ha voluto bene al suo modo di giocare (come tutti noi) ma poi ha capito l’uomo, lo ha accompagnato, gli ha fatto dire cose che forse non avremmo mai saputo. Vicende di straordinaria rilevanza saltate fuori come davanti a un caffè. Minà intervista, ma Maradona si confida perché si fida, si è fidato dall’inizio. Nessuno dei due ha mai deluso l’altro.
Maradona parla di pallone, naturalmente, ma anche di potere. Delle sue debolezze, dei problemi con la droga, di come sia stato usato (e quanto). Ogni cosa che ha detto o fatto nel nome della sua onestà gli è stata fatta pagare a caro prezzo. Gliela ha fatta pagare la Fifa, prima a Italia 90 e in maniera, se possibile, ancora più terribile, a Usa 94. Per i Mondiali americani lo andarono a ripescare due volte, una per salvare l’Argentina che rischiava di non qualificarsi e l’altra per salvare i campionati per i quali non si stavano vendendo abbastanza biglietti. Il Mondiale poi era salvo e la Fifa non poteva rischiare di ritrovarsi di nuovo l’Argentina in finale o, addirittura, campione. E allora Diego se ne va per mano all’infermiera per non tornare, la federazione argentina lo sospende. «Ormai quando è venduto tutto non servono più nemmeno i Rolling Stones». Minà ci riporta agli anni del Napoli, rivoluzionari e turbolenti, la città cambiò. Maradona ha dato a Napoli tutto, ha cambiato la storia e ne ha pagato il prezzo, in termini di stress e di rinuncia alla libertà. I tifosi del Napoli questa cosa, col tempo, l’hanno capita bene e non l’hanno mai dimenticata. Ritroviamo il Diego dell’amicizia con Fidel, che si scaglia contro il potere degli Usa, che parla di vendita di armi e dell’amore per le sue figlie, di politica.
È molto bello e forte il passaggio in cui Diego mette in parallelo le due vittorie dell’Argentina ai Mondiali, quello del 1978 e della dittatura di Videla e quello del 1986. Parla del rispetto che deve ai trentamila desaparecidos e che non si può dimenticare. «Nel ’78 avremmo potuto vincere lo stesso ma ci hanno pensato i generali Videla, Agosti e Massera, a metterci un timbro in fronte. Come se tutti gli argentini fossero assassini! Io il timbro in fronte non lo voglio perché non ho ammazzato nessuno, ma quelli sì». Prosegue, Minà ascolta, sollecita. Diego ricorda come non possa accettare che Menem abbia concesso l’indulto a quegli assassini. Minà ricorda, dal suo canto, come Menem e la politica argentina questa limpidezza di visione e di pensiero, a Diego, non l’abbiano mai perdonata. C’è naturalmente Ferlaino, uno di quelli più in debito di tutti nei confronti di Maradona, debito mai pagato, e c’è la vicenda assurda del fisco italiano, che si è conclusa a favore dell’argentino solo dopo la sua morte. Ci sono Platini, Cantona, Vialli, Ciro Ferrara, Careca, Messi (per Diego il più forte dopo di lui) e Ronaldo.
Maradona è però colui che racconta il gol più bello della storia del calcio, soffermandosi solo sulla parte finale dell’azione, come se tutti gli uomini saltati in precedenza rimanessero anche per lui nel regno dell’insondabile: «Quello è stato il gol che sognano tutti, non soltanto io. Quando ho dribblato Shilton, il loro portiere, e ho visto Butcher arrivare sulla mia destra, già sapevo che avrei segnato, e che quel gol non me lo poteva togliere nessuno. Ho capito di aver fatto il gol che sognavo da piccolo, prima ancora di giocare in prima squadra, prima di uscire dal mio rione». E pare di vedergli il volto che s’illumina al ricordo.
Non è stato un uomo comune, ma è stato un uomo, ci dice Gianni Minà, un uomo straordinario con il pallone tra i piedi, per inventiva, classe, tenacia, correttezza e rendimento. Un uomo onesto e debole, spesso solo. Un uomo che ha pagato per ogni sbaglio commesso. «Diego non è un reietto, ma solo uno che si è bruciato per aver volato troppo in alto», scrive Minà su Tuttosport nel settembre del 1997. Tra poco saranno sei mesi dalla morte di Maradona e, tra le pagine di Minà, proviamo di nuovo quella malinconia che resta, come scrive Galeano (citato da Minà stesso), dopo l’amore o dopo una partita di calcio.