Il Sassuolo non è una favola, ma una fabbrica del talento

Tanti giocatori e diversi allenatori sono partiti dal club neroverde per affermarsi nel grande calcio. Merito di un progetto coerente, di una società all'avanguardia e che ha grandi ambizioni per il futuro.

Quasi tutte le rappresentazioni cinematografiche e televisive incentrate sul calcio italiano di provincia, dalle produzioni d’autore fino alle commedie demenziali, hanno raccontato storie imbevute di stereotipi e cliché: al vertice della società c’è sempre un presidente-mecenate casereccio, molto legato al territorio; accanto a lui c’è un gruppo di dirigenti e tecnici e giocatori che a loro volta sono piuttosto ruspanti, e proprio uno di questi personaggi è l’antieroe che alla fine si redime e redime tutti gli altri, che conduce la squadra alla vittoria. Solo che questo successo non determina mai una reale emancipazione, tutto resta eternamente legato a una dimensione locale, come se il calcio di provincia fosse uno stato mentale, una condizione dell’anima pressoché immutabile. Anche la maggior parte delle narrazioni giornalistiche è rimasta ancorata a ruoli prestabiliti, alla successione classica degli eventi, all’idea semantica per cui una squadra che riesce a imporsi in Serie A partendo dalle categorie inferiori sia protagonista di una favola, di un miracolo.

Da almeno trent’anni la realtà è decisamente diversa, molto più capitalistica: il Parma e il Chievo, a cavallo tra i Novanta e i Duemila, hanno dimostrato come anche dei club senza grande tradizione possano gestire delle risorse finanziarie importanti in maniera più evoluta, anzi si tratta di una strategia che può portare a traguardi molto prestigiosi. Oggi questo stesso spazio appartiene al Sassuolo, una società che vive il calcio come uno sport, ma anche come un ambiente di mercato competitivo, come un multiverso in cui è possibile fare risultati e fare business pur partendo da un contesto di dimensioni ridotte. Questo approccio ha dato e sta dando i suoi frutti: dopo aver passato i suoi primi novant’anni di vita nelle serie inferiori, il club neroverde è diventato una realtà di primo piano nel panorama italiano. Ce l’ha fatta grazie per via dei investimenti di una proprietà solida, ma soprattutto grazie a un modello strutturato e di ampio respiro, tutt’altro che provinciale, solo adattato alle dimensioni della provincia.

La crescita verticale del Sassuolo è stata raccontata dal Guardian, da L’Équipe, dal New York Times. Secondo Giovanni Carnevali, amministratore delegato del club dal 2013, il merito di questo successo riconosciuto su scala internazionale è tutto di Giorgio Squinzi, patron della Mapei e proprietario della società dal 2002 fino alla morte, avvenuta il 2 ottobre 2019: «Dal momento in cui l’ha rilevato, Squinzi ha trattato il Sassuolo come se fosse una qualunque azienda del gruppo Mapei: ha dato alla dirigenza e alla squadra una struttura importante, ma soprattutto una programmazione virtuosa. La sua visione ci ha permesso di costruire un progetto che si è rivelato vincente nella sostenibilità, e che ora dobbiamo semplicemente portare avanti». Ecco, questa non è proprio la storia di un presidente-mecenate, piuttosto è la vicenda di un imprenditore tradizionale che è diventato imprenditore sportivo, che ha importato nel calcio il know how dell’industria extracalcistica, creando un nuovo modello ibrido.

Il Sassuolo che da anni veleggia tranquillamente a metà classifica, che è arrivato a disputare l’Europa League pur rappresentando una cittadina di 40mila abitanti – in Italia solo il Chievo ha partecipato a una competizione calcistica internazionale partendo da una comunità di riferimento meno popolosa – e che ora è di nuovo in corso per giocare nelle coppe è infatti un’azienda sana, prima di tutto: l’ultimo bilancio pubblicato, quello relativo all’esercizio dell’anno 2020, è stato il primo in rosso dopo quattro esercizi consecutivi chiusi con un utile operativo; il Sassuolo, inoltre, ha un rendimento positivo sul calciomercato (29 milioni di saldo attivo tra acquisti e cessioni dal 2016 a oggi) ed è la miglior squadra di Serie A per sostenibilità della rosa, un parametro costruito dall’osservatorio calcistico CIES sulla base di tre rilevazioni statistiche – età media dei calciatori in organico, incidenza del mercato sulle scelte dell’allenatore, politica contrattuale.

«Non c’è niente di casuale, è tutto collegato», dice più volte Carnevali quando parla del Sassuolo. E in effetti è proprio così, i dati illustrano chiaramente il business calcistico del Sassuolo, un club che da anni pensa e agisce come un’incubatrice, anzi come un’industria del talento. Da queste parti si allevano grandi giocatori ma anche grandi allenatori, perché l’identità del Sassuolo non è tattica, almeno non primariamente. L’identità del Sassuolo vive e si rinnova nella società, nella continuità del progetto: «Noi dirigenti svolgiamo la parte più importante», spiega Carnevali, «perché determiniamo il tutto con le nostre scelte strategiche. Dopo, però, è l’allenatore a tracciare la strada, a fare delle richieste. Il nostro compito è comprendere e assecondare le sue necessità, trovare i giocatori che abbiano le giuste caratteristiche e un profilo in linea con i nostri budget».

È un modello granitico che però sa diventare liquido, è un metodo che funziona perché responsabilizza i tecnici e crea un ambiente perfetto per la crescita dei giocatori: non a caso il passaggio per Sassuolo è stato una tappa fondamentale nella carriera di Allegri, Pioli, Di Francesco, De Zerbi, tutti allenatori diversissimi tra loro per idee di gioco, atteggiamento, stile comunicativo, tutti allenatori che hanno lasciato – o lasceranno, nel caso di De Zerbi – Sassuolo per allenare club più grandi, più ambiziosi; dal 2013 a oggi, inoltre, i commissari tecnici alla guida dell’Italia hanno fatto esordire dieci calciatori diversi che hanno fatto parte della rosa del Sassuolo. Tra questi ci sono Caputo, Locatelli, Berardi, non solo i giovani che poi si sono affermati altrove. Anche questo non può essere un caso.

Manuel Locatelli e Giacomo Raspadori sono stati i due grandi protagonisti della stagione del Sassuolo, e infatti sono tra i giocatori preselezionati da Roberto Mancini, ct della Nazionale italiana, per i Campionati Europei (Tiziana Fabi/AFP via Getty Images)

Il primo di questi calciatori a giocare in Nazionale è stato Simone Zaza, nell’estate 2014. Proprio il percorso dell’attaccante lucano ha in qualche modo raccontato la prima fase del progetto-Sassuolo in Serie A: nel 2013 la Juventus, dopo aver rilevato il suo cartellino dalla Sampdoria, decise di cederlo in comproprietà al club emiliano perché potesse valorizzarlo, esattamente come sarebbe avvenuto in seguito con Berardi, Lirola, Rogério, come poi avrebbe fatto la Roma con Pellegrini, Politano e tanti altri talenti. «Quando abbiamo raggiunto il massimo campionato», racconta Carnevali, «abbiamo stretto buonissimi rapporti con i club più importanti, ponendoci come interlocuzione per lo sviluppo di quei giovani che da loro non avrebbero avuto abbastanza spazio. Era una parte della nostra strategia, e ha funzionato bene. Ora però abbiamo ampliato i nostri legami, guardiamo all’Europa, al Chelsea, al Barcellona, all’Atlético Madrid, società con cui collaboriamo da anni. Anche queste sinergie hanno un significato, sono una spia dello sviluppo del Sassuolo non solo come squadra, ma anche come brand». 

Sarebbe sbagliato, però, ridurre tutto a un modello efficace di scouting e reclutamento, allo sfruttamento intelligente e virtuoso del player trading. Mentre lavoravano per incrementare il valore della squadra maschile senior (da 97 a 216 milioni negli ultimi cinque anni, secondo i dati di Transfermarkt), i dirigenti del Sassuolo hanno differenziato i ricavi e le aree di investimento, così il club è entrato nella seconda fase del suo piano pluriennale: il settore giovanile è cresciuto tantissimo, fino ad arrivare alla vittoria del Torneo di Viareggio 2017; la squadra femminile, creata nel 2016, è diventata la terza forza del campionato di Serie A dietro Juventus e Milan; a giugno 2019 è stato inaugurato il Mapei Football Center, complesso sportivo da 45mila metri quadri con sei campi da gioco; sono stati completati diversi di interventi di ristrutturazione del Mapei Stadium, impianto di proprietà acquisito nel 2013. «Siamo consapevoli di aver costruito qualcosa di importante», conclude Carnevali, «ma ci sentiamo ancora all’inizio del percorso: il Sassuolo deve continuare a crescere, guardando alle cose belle che fanno gli altri club, ma senza smarrire la sua identità». Non fermarsi mai, volgere gli occhi al mondo, proiettare i progetti verso il futuro: il Sassuolo sta dimostrando che questa è la strada da seguire perché il calcio di provincia resti ciò che è davvero, una definizione solo geografica e non uno stato mentale, una condizione immutabile dell’anima.