Come ha fatto il Lille a vincere la Ligue 1?

Non un miracolo, ma un'impresa costruita nel tempo, grazie a un progetto sostenibile e a un sistema di gioco aggressivo, moderno, funzionale

Nel luglio 2020, commentando le voci dell’interessamento di alcuni club di Premier League per il direttore sportivo Luís Campos, l’allora presidente del Lille, Gérard López, dichiarò al Daily Mail che «per Luís i soldi non sono fondamentali: a lui interessa vincere e farlo, se possibile, con giocatori giovani e di talento». Aprire un articolo sul Lille campione di Francia partendo da due dirigenti che non fanno più parte dell’organigramma societario potrebbe sembrare assurdo, ma in realtà così risulta più facile evidenziare come la corrispondenza tra l’approccio manageriale del portoghese e gli aspetti di campo sia stata la pietra angolare su cui edificare un progetto solido, concreto, futuribile. Un progetto vincente anche in Ligue 1, il campionato che ha visto trionfare il Psg sette volte nelle ultime dieci stagioni.

Nel 2017, intervistato da Yahoo Sport, Campos disse che la ragione dietro l’ascesa vertiginosa del Monaco di Mbappé, Bernardo Silva e Jardim, la squadra campione di Francia nel 2017, risiedeva nel lavoro che gli era stato chiesto di fare: «Ho dovuto coordinare la ricostruzione di un club che non era preparato per competere al massimo livello: la riorganizzazione di intere aree come il reparto medico o quello della formazione dei giocatori, la gestione della squadra, lo studio degli avversari, l’implementazione di una nuova metodologia nello scouting, sono stati i primi passi nella costr Monaco». Per questo quando oggi pensiamo, parliamo e scriviamo del Lille come una squadra dinamica, iper-cinetica, diretta, verticale, lo facciamo perché è stato Campos a volerla strutturare così, in totale adesione con quella che era – e che è – la sua visione filosofica e culturale del calcio: uno sport in cui il riconoscimento e lo sviluppo del talento, il player trading esasperato, la coerenza tra le scelte di mercato e la direzione che si imprime di volta in volta al progetto tecnico, devono determinare la mission aziendale e sportiva. Una mission che gli allenatori di turno devono condividere e mettere in pratica. Se viviamo un’epoca per cui, nello sport professionistico, prestazioni e risultati vengono declinati secondo i parametri della ricerca di una precisa identità tattica e di una certa riconoscibilità progettuale, poche squadre sono più identitarie e riconoscibili del Lille. Questa è la vera legacy di Campos: aver brevettato e codificato un metodo che gli sopravvive a prescindere dalla sua effettiva presenza all’interno del contesto. Un metodo che è sopravvissuto al Monaco e ha portato il Lille a vincere la quarta Ligue 1 della sua storia, dieci anni dopo l’ultimo trionfo firmato da Rudi Garcia.

Dal punto di vista tattico, raccontare il Lille significa raccontare una squadra con pregi e difetti ben definiti e che ha consolidato le proprie certezze nel corso della stagione senza la necessità di derogare dai principi di riferimento. Ma significa anche raccontare un fenomeno di costume oltre la retorica del “team of destiny”: digitando nella query di YouTube “LOSC Lille style of play” i primi video consigliati sono quelli fatti da gamer professionisti che spiegano come replicare il sistema di Galtier anche in FIFA21 o Football Manager, e come avere ragionevoli probabilità di successo anche in un mondo virtuale regolato da script e algoritmi. Lo schema base è un 4-4-2 che potrebbe sembrare piuttosto scolastico nell’interpretazione delle varie fasi di gioco, ma che, in realtà, permette un’efficace occupazione degli spazi soprattutto in fase di non possesso, a prescindere dagli interpreti: il segreto della grande compattezza difensiva – 21 clean sheets in 38 partite, miglior difesa della Ligue 1 con appena 22 gol subiti – risiede in un sistema di scalate e coperture preventive che consente di coprire il campo tanto in ampiezza quanto in profondità.

Quando uno dei due terzini esce in pressione sul lato palla, il centrale di riferimento si alza fin sulla trequarti per aumentare la densità; l’altro centrale e il terzino sul lato opposto scalano a copertura dello spazio alle sue spalle, mentre l’esterno offensivo stringe in ripiegamento per aiutare uno dei due mediani a seguire tutti i potenziali inserimenti dal lato debole. Se, invece, la manovra avversaria tende a svilupparsi centralmente alla ricerca dello spazio alle spalle della seconda linea di pressione, la scelta è quella di forzare il lancio lungo sull’uomo tenuto da Botman, uno dei due centrali difensivi, o indirizzare l’uscita palla sull’esterno, pressando con le due punte sia il centrale di costruzione che il centrocampista che si abbassa in ricezione e schermando le linee di passaggio in verticale.

In fase di pressione, poi, i centrocampisti centrali, soprattutto quando manca Renato Sanches, tendono a limitare la riaggressione alta a quelle fasi di partita in cui la possibilità di giocare sovra-ritmo permette al Lille di esprimere tutta la sua superiorità fisica e atletica: la vittoria nello scontro diretto in casa del Psg è arrivata nel momento in cui Christophe Galtier ha scelto, contro una squadra di un livello tecnico fuori scala, di non assecondare la naturale inclinazione dei suoi a correre in avanti, lasciando così metri di campo alle corse di Neymar e Mbappé. Il resto lo hanno fatto le parate di Maignan e la compattezza tra i reparti resa possibile dall’interpretazione del ruolo di André e Soumaré, con Renato Sanches finto esterno chiamato a dare manforte nel presidio della zona centrale: un compromesso cercato, studiato, voluto, basato su un’attenta valutazione del rischio e sull’analisi costi-benefici di ogni singola scelta tattica. Anche questa, in fondo, può considerarsi una diretta conseguenza dell’applicazione integrale del “metodo Campos”.

Tutte le occasioni pericolose del Psg sono state originate dalla capacità di Neymar, Di Maria e Mbappé di spezzare il raddoppio e superare palla al piede il pressing avversario. Diversamente lo scaglionamento difensivo del 4-4-2 del Lille ha impedito ai parigini di risalire il campo con continuità attraverso passaggi progressivi

In avanti il Lille è, se possibile, ancor più schematico ed efficace per applicazione ed esecuzione del proprio piano tattico. In prima costruzione l’opzione principale è un 2+3, con i due terzini che si alzano sulla linea di Renato Sanches – 42 passaggi di media, 86,4% di precisione – o André per offrire uno scarico comodo e immediato, mentre il secondo centrocampista e l’esterno offensivo sul lato forte vanno ad occupare il mezzo spazio alle spalle della seconda linea di pressione, così da consentire la progressione in verticale dell’azione. Non è raro, però, che il primo possesso si consolidi sul triangolo formato da difensore centrale-terzino di riferimento-mediano che si abbassa in ricezione, soprattutto quando la palla è tra i piedi di José Fonte che, complice, il 90% di accuratezza nei passaggi ­– che diventa 70% per i palloni lunghi – può anche permettersi il cambio gioco sul lato opposto dopo aver indirizzato il primo pressing avversario.

Superata la metà campo il 4-4-2 del Lille diventa una sorta di 4-2-2-2 fluido in cui  il movimento degli esterni offensivi – per lo più schierati a piede invertito – a entrare dentro il campo è favorito dalle corse senza palla dei due terzini a portare via l’uomo cui toccherebbe il raddoppio di marcatura: Ikoné e Bamba sono due ali moderne, giocatori esplosivi per cambio di passo e intensità, ma che necessitano comunque di metri di campo davanti per creare situazioni di superiorità numerica e posizionale, rientrando sul piede forte o strappando palla al piede in conduzione. Per questo le “finte sovrapposizioni” di Celik a destra e Reinildo a sinistra, più che un sostanziale appoggio alla fase offensiva, costituiscono uno strumento per allargare il campo e creare ulteriori spazi per le connessioni tra gli esterni e le due punte. Fondamentali, in questo senso, sono i movimenti di Jonathan David e Burak Yilmaz a tirare fuori i centrali avversari e ad aprire le tracce interne per gli inserimenti dell’esterno sul lato palla e di uno dei due mediani a turno: contro il Lens, ad esempio, l’azione che porta al rigore dell’1-0 nasce da una corsa in verticale di David che apre per Araujo un comodo corridoio da attaccare; solo dopo arriva il passaggio per Bamba dalla parte opposta.

Il resto lo fanno la classe di Burak Yilmaz  un Lens troppo distratto e superficiale in fase di prima costruzione

A proposito delle due punte. La coppia Yilmaz-David è, al pari della cerniera difensiva composta da Fonte e Botman, uno dei pochi punti fermi di un collettivo che fa dell’intercambiabilità dei suoi interpreti uno dei suoi punti di forza. La ragione è da ricercare nella complementarietà delle loro caratteristiche di base: David è un attaccante che compensa una tecnica di base ancora piuttosto grezza con un istinto verticale che lo porta a cercare di dettare sempre e comunque il passaggio in profondità al portatore di palla, un dettaglio non secondario quando si è trattato di affrontare squadre che hanno cercato di togliere al Lille spazi e metri di campo.

Yilmaz, invece, è probabilmente l’unico giocatore della rosa in grado di creare per sé e per gli altri al di fuori di situazioni codificate e mandate a memoria. A 35 anni e alla prima stagione in un campionato top-5, Yilmaz è finalmente diventato l’attaccante totale che avrebbe sempre potuto e dovuto essere: il suo gioco spalle alla porta fa di lui l’appoggio ideale in fase di risalita del campo per vie centrali, mentre in situazioni di difesa schierata  la sua capacità di cercare – e trovare – linee di passaggio ambiziose ed estemporanee permette al sistema del Lille di avere già al suo interno gli “anticorpi” utili in quei momenti in cui la trasmissione palla potrebbe risultare piatta, monocorde e prevedibile. E quando tutto questo non basta mettersi in proprio non è un problema: a Lione, con la squadra sotto 2-0 nello scontro diretto, Yilmaz ha trascinato la sua squadra alla vittoria con due gol e un assist. Dominante e consapevole di esserlo.

Quanti altri attaccanti, a quattro minuti dalla fine e con il primo posto in gioco, avrebbero optato per lo scavino in quella situazione? Non male anche il commento e l’entusiasmo del telecronista

Il Lille che ha vinto il titolo dieci anni dopo l’ultima volta è una squadra profondamente, anzi filosoficamente diversa da quella di Rudi Garcia. Allora, in un campionato in cui il peso e la distribuzione delle individualità non erano ancora stati travolti dalla ricchezza del Psg, il talento precoce di Hazard, Mavuba, Cabaye e Gervinho era stato sufficiente per ritagliarsi un ruolo di primo piano in un torneo che, con quattro squadre campioni diverse in quattro anni (Marsiglia, Bordeaux, Lille e Montpellier) si stava ancora riequilibrando dopo la tirannia del Lione; oggi, per avere la meglio contro un avversario molto più forte nei singoli, si è percorsa la strada opposta, quella dell’organizzazione, della programmazione, della progettualità, del saper comprare prima ancora del saper vendere. Dal 2019 a oggi il Lille ha scelto di privarsi di Pepé, Thiago Mendes, Rafael Leão, Osimhen e Magalhães per inseguire l’utopia di vincere in maniera sostenibile, convincendo e facendo quadrare i conti contro chi ragiona per principi opposti: il fatto sia andato tutto secondo i piani dimostra che si può fare, anzi che si deve fare. Magari chiedendo a Luis Campos come si fa.