L’evoluzione permanente di Pep Guardiola

Nelle sue esperienze in tutta Europa, il tecnico catalano si è adattato a contesti e condizioni sempre differenti, oggi infatti è un allenatore molto diverso rispetto a qualche anno fa. Ed è proprio questo il segreto del suo successo, così profondo e duraturo.

Come la versione sempre “penultima” di un software o di uno smartphone, il Manchester City 2020/21 sembrerebbe modulato su una mediazione inedita tra seduzione e pragmatismo, estetica e spietatezza. Per Josep Guardiola, un tabù infranto, una bestemmia. È davvero così? Se sì, come ci si è arrivati? Per rispondere, non sarà forse inutile ripercorrere, almeno per flash, la genesi e lo sviluppo di un sistema in evoluzione (più che rivoluzione) permanente.

Come tutti i grandi allenatori, Pep è un costruttore di grandi cattedrali: anzi, lo è fatalmente più di altri. È stato lui stesso a rimarcarlo, quando alla guida del Barça ricordava sempre l’innesco e il magistero di Cruijff: «Johan ha costruito la cattedrale, a noi spetta mantenerla» (altre versioni riferiscono di “cappella” e di “restauro”). Analogia in cui in realtà, con un mix di understatement e orgoglio, evidenzia nel proprio contributo più un apporto di integrazione che di semplice mantenimento, come se la cattedrale fosse proprio la Sagrada Familia di Gaudí, “eternamente” in progress. Da quella cattedrale, il Pep giocatore del primo Dream Team assimila i tratti che nutriranno il Pep allenatore: la pianta originaria (il 4-3-3 o 3-4-3); le fondamenta, cioè i difensori “tecnici” – sia centrali che esterni – per impostazioni e uscite manovrate; le navate (la costruzione per triangoli dinamici); e il sistema di guglie e pinnacoli, il tridente offensivo che si muove ed è alimentato da passaggi “in diagonale” per disarticolare le difese.

Quei tratti – che Pep porterà sempre con sé, integrandoli e variandoli all’infinito, fino al City attuale – si mescolano dall’inizio ad altri, attinti soprattutto dal versante meso e sudamericano: il gioco posizionale di Juan Lillo, coach di Pep nel bonus-track al Dorados Sinaloa; la “salida lavolpiana”, ovvero la “costruzione dal basso” («in modo che giocatori e palla avanzino contemporaneamente»), brand unico del baffuto coach argentino del Messico Ricardo La Volpe, team preferito da Pep al Mondiale 2006, di cui scrive per El País; e i costituenti delle squadre di Marcelo Bielsa, a partire dall’atteggiamento sempre proattivo. Anche se il memorabile incontro-confronto col Loco, nell’ottobre di quello stesso anno – undici ore ininterrotte nella magione di Maximo Paz, Santa Fe – culmina nel comune trasporto per l’Ajax di Van Gaal, coach avuto da Pep al Barça e di cui, probabilmente, tutti e due ricordano apparizioni come quella del 23 ottobre ’95 (Real-Ajax 0-2), quando – secondo le parole di Valdano, allora coach blanco – «un’aquila plana sul Bernabéu con le sue grandi ali». Colpisce che Bielsa elogi, di quell’armonico contrarsi/distendersi, la media dei passaggi al portiere a partita (37), leggendoli – in modo controintuitivo per l’epoca – come «inizi di un nuovo attacco».

Il grande vantaggio di Pep è cercare di fondere quel patchwork nel contesto più adatto, quello blaugrana, dove l’imprinting del totaalvoetbal di Michels e Cruijff si fonde con la didattica delle giovanili, su tutti i rondos, i “torelli guidati” del leggendario Laureano Ruiz. Dopo l’apprendistato al Barça B, porta così la cattedrale all’apogeo del secondo Dream Team, caratterizzato soprattutto da un’inedita e inaudita prossimità tra possesso e pressing, al punto da rendere indistinguibili le due fasi, recto e verso di un flusso che sembra porsi alle altre squadre come una dimensione quantistica rispetto a quella della fisica classica. Il possesso resterà inimitabile per qualità degli interpreti e leggerezza delle trame-trine: il pressing (che Pep attinge da un altro modello, il Milan sacchiano) influenzerà tutti i break successivi, a partire dal gegenpressing di Klopp.

A Monaco (2013-16), il fitto retablo catalano è impensabile: le efflorescenze e i colori di Gaudí si fondono lentamente al gioco-Bauhaus del Bayern, arrivando a una prima elaborazione-sintesi. Dato che il contesto bavarese – a differenza di altri club dell’establishment come Real o Juve – è storicamente aperto all’avanguardia, ne deriva una sperimentazione sia sul sistema che sui dettagli (i terzini accentrati in costruzione, vedi Lahm, per prevenire le ripartenze avversarie) che porterà a risultati in parte deludenti (in Europa), ma a diverse partite o sequenze memorabili. Tra le tante, il trailer-spoiler del 2 ottobre 2013 (City-Bayern 1-3) con cui Pep si presenta al suo club futuro, un’esibizione ipnotica che ha per acme i 3 minuti e 27 secondi (tra il 64° e il 69°) in cui i biancorossi eseguono un gigantesco rondo, impressionante per precisione, velocità, durata.

Come tecnico del Barcellona, che ha guidato dal 2008 al 2012, Guardiola ha vinto 14 trofei, tra cui tre edizioni della Liga e due della Champions League (Denis Doyle/Getty Images)

Approdando al City (2016-), Pep scontenta i molti – come Cantona – che lo avrebbero voluto sulla sponda United, anche perché inquietati dalla prospettiva di dover subire altre debacle (come quelle subite nelle due finali Champions col Barça) e un rovesciamento storico di leadership, cittadina e nazionale (puntualmente avvenuto). Preparato con l’insediamento della colonia blaugrana (da Beguiristain a Soriano) e da subito assecondato dai capitali dello sceicco Mansur, l’incipit di Pep al City è ingannevolmente scorrevole: lo 0-5 inferto alla Steaua nel pre-Champions e un miniciclo di nove vittorie – compreso il derby a Old Trafford – esprimono già un gioco fluido ed euritmico, focalizzato molto più in fretta rispetto agli esordi bavaresi. Poi, l’inabissamento nei “lunghi inverni” di Premier (con campi spesso ingiocabili) e il confronto col calcio insulare di derivazione rugbistica (l’arcaico “kick and rush”) mettono in crisi il sistema: a un certo punto, in un’intervista-check up a Thierry Henry, Pep confessa di non capire come sia possibile «pressare le palle aeree».

È in quel primo anno senza titoli che si incuba l’ennesima metamorfosi. Pep cerca cioè di adeguare-ritarare al contesto il telaio spaziotemporale del suo gioco: i cinque secondi come maximum del recupero-palla; i 15 passaggi di possesso come minimum per la disarticolazione dell’assetto avversario; il mandala rettangolare dei 20 riquadri di partizione del campo, i quattro orizzontali e soprattutto i cinque verticali, in ognuno dei quali non devono mai stare più di due giocatori a diversa profondità. In più, cerca di ovviare al sovraccarico informazionale di compiti e soluzioni a livello di team e di singolo; un sovraccarico che troppe volte ha mandato i suoi in loop e in “rigetto”, anche perché gravante su principi di gioco già dispendiosi sul piano dell’attenzione (della lettura “situazionale” in rapporto agli automatismi acquisiti).

Ma questa evoluzione è indissolubile da quella simultanea del Liverpool, coi due team che cercano di superarsi negli scontri diretti e quindi nel valore assoluto. È una contesa (la più alta, per ora, nel calcio del Millennio) che si traduce via via – per feedback reciproci, proposte e risposte o meglio controproposte, sorpassi e controsorpassi – in un fugato infinito, in una sorta di coevoluzione darwiniana, fino alla messa a punto di due intelligenze collettive sempre più complesse e sofisticate. Per rispondere al nuovo calcio heavy-metal di Klopp (la ricerca di una “ripartenza permanente” condotta ai limiti del parossismo, coi tempi di recupero-palla ridotti al minimo consentito dalla fisiologia umana e un’accelerazione-essenzialità insieme fluida e brutale nelle uscite-contrattacco), Pep costruisce nel tempo un team al grafene, il materiale leggero e inossidabile scoperto proprio a Manchester: un possesso-fraseggio full court che rende più essenziali ed economici i movimenti sincronici del suo gioco posizionale, con e senza palla, affinandoli in un legato da archi dei Berliner. Sintesi materiale e simbolica della nuova configurazione è Kevin De Bruyne, il “Ron” di Harry Potter che gioca sul binario 9 e 3⁄4 (che «vede autostrade», come diceva Boskov dei fuoriclasse, «dove altri solo sentieri»), riassumendo come nessuno la tensione del team a manipolare lo spaziotempo.

Questa competizione-coevoluzione vede i due team alternarsi più spesso sull’Himalaya piuttosto che condividerlo. Il City occupa la vetta nelle due Premier-monstre dei 198 punti (2017-19); i Reds nell’anno e mezzo delle due Champions (anche quella persa) e della Premier vinta di fatto a Natale 2019. Ed è lì che Pep concepisce l’ulteriore riassetto del mandala, teso sia a un nuovo controsorpasso sui Reds, sia – soprattutto – ad affrontare davvero il profondo bug della sua parabola post-Barça (la Champions), reso da uno score spietato: in sette anni tra Bayern (tre uscite in semifinale) e City (un’uscita agli ottavi e tre ai quarti), quattro vittorie e nove sconfitte, 17 gol fatti e 30 subiti (-13); cifre degne del peggior Zeman. È un riassetto all’insegna della circolarità, dato che Pep può attuarlo grazie ad antichi maieuti e/o modelli come Lillo (suo attuale vice, anche se arrivato prima dell’uscita-shock col Lione a Ferragosto) o Van Gaal, che gli dedica nel suo ultimo libro (LvG: de trainer en de totale mens) appunti severi e mirati.

Guardiola ha guidato il Bayern Monaco dal 2013 al 2016: ha vinto la Bundesliga per tre volte, più due Coppe di Germania, una Supercoppa Europea e un Mondiale per club, ma è stato eliminato per tre volte consecutive dalle semifinali di Champions League (Aris Messins/AFP via Getty Images)

Molti dei nuovi tratti del City 2020/21 sono decisivi anche, se non anzitutto, come adeguamenti del team al calcio-Covid: turnover massivo (grazie a rosa adeguata); pressing dosato per timing e comparti; fasi di gioco in controllo e “recupero attivo”; acuizione della polivalenza (Cancelo esterno/interno o conversioni offensive, vedi Gundogan, che permettono di giocare partite senza punte). Altri, sono specificamente legati a ridurre l’esposizione al rischio dello sviluppo offensivo, senza che questo perda nulla della sua radiance: ritocchi alle varianti della “salida lavolpiana”; posizionamenti e marcature preventive più rigorosi/e; pazienza nel cercare penetrazioni meno insistite ma più chirurgiche. Il che si traduce da un lato in un minor numero di tiri in porta subiti e di occasioni lasciate all’avversario; dall’altro in un minor numero di tiri complessivi effettuati ma in percentuali molto più alte di tiri in porta rispetto a quelli complessivi. In Premier, il riassetto ha già pagato, con un’ipoteca forte del titolo a inizio marzo, anche per un imprevisto crash dei Reds che certi fattori-Covid (l’amputazione di Anfield, decisiva nel gioco affettivo-emotivo di Klopp) e altri contingenti (i quattro difensori centrali persi tra infortuni e mercato, nel momento, per inciso, in cui il City a rovescio trova Ruben Dìas) rischiano di amplificare la precoce fine di un ciclo.

Quanto alla Champions, è altro discorso, perché alle ragioni tecniche se ne aggiungono di psicologiche. In questi sette anni, è sembrato a volte che Pep dilatasse a ossessione la vittoria della “terza” extra-Barça (senza Xavi, Iniesta e Messi); al punto, per così dire, da desiderarla troppo, condizionando se stesso e i giocatori, come mostra la perversa ingegnosità di tanti esperimenti autodistruttivi nelle partite-chiave. In questo, ricorda il geniale Professor Morbius del Pianeta Proibito, i cui nemici altro non sono che “mostri dell’id”, proiezioni materializzate del suo stesso inconscio. Conta che Pep risolva quel cortocircuito interno, magari assorbendo subito qualche frammento di quella “filosofia zen” di Carletto (uno che la “terza” l’ha vinta) cui dice di aspirare. In fondo, le cattedrali che Pep ha arricchito o costruito ex novo non rischiano di finire engloutie, come quelle di Monet o Debussy; si stagliano già – inconfondibili – lungo le skyline della storia calcistica, intesa come una mobile, ormai immensa megalopoli.

Da Undici n° 37