Pep Guardiola ha davvero sbagliato la formazione per la finale di Champions League?

Forse sì, e non è la prima volta che succede in una grande notte europea.

Al termine della finale di Champions League in il Chelsea cui ha battuto per 1-0 il Manchester City, era inevitabile fare i complimenti a Tuchel e alla sua squadra: la prestazione dei Blues è stata praticamente perfetta per tenuta difensiva, capacità di controllare il pallone e gestire il ritmo della gara, di ribaltare velocemente l’azione e sorprendere così gli avversari. Allo stesso tempo, però, il rendimento del City è stato per lo meno rivedibile, certamente sotto le aspettative della vigilia, in tutte le fasi di gioco. A finire sotto accusa sono state le scelte di formazione di Pep Guardiola: il tecnico catalano ha cambiato il suo undici iniziale rispetto a quello ormai consolidato – negli uomini e nelle spaziature – che l’aveva condotto alla finale, inserendo Sterling al posto di Fernandinho/Rodri e arretrando Gündogan nel ruolo di centrocampista centrale; inoltre, Pep ha deciso di escludere Cancelo dalla squadra titolare e di sostituirlo con Zinchenko nello slot di terzino sinistro.

Insomma, Guardiola ha dato seguito alla leggenda metropolitana sul suo “Overthinking” in occasione di partite importanti, vale a dire la tendenza a pensare troppo – traduzione letterale – e quindi a cambiare formazione e strategia in modo improvviso e improvvido prima di affrontare uno scontro decisivo, soprattutto le gare a eliminazione diretta di Champions League. In realtà non è proprio una leggenda, piuttosto un evento frequente nel corso della sua carriera: un anno fa, in occasione dei quarti di finale in gara unica contro l’Olympique Lione, il City è sceso in campo con Eríc García perno centrale di un’inedita difesa a tre; nel 2019, per il match dei quarti perso (0-1) in casa del Tottenham, Guardiola scelse di non schierare De Bruyne, Bernardo Silva e Gabriel Jesus dal primo minuto; nel 2014, quando era al Bayern Monaco, Pep preparò la semifinale di ritorno di Champions League contro il Real Madrid modificando radicalmente il modulo di gioco (passò dal 4-3-3- al 4-2-4) e l’atteggiamento in campo della sua squadra, come ampiamente documentato nel libro Herr Pep, scritto da Martí Perarnau; qualche anno dopo, proprio in relazione a questo tipo di atteggiamento, Thomas Müller disse che «Pep presta estrema attenzione agli avversari e ai loro punti di forza: quando deve affrontare squadre di alto livello, è sempre molto combattuto, non sa se restare fedele alle proprie convinzioni oppure cambiare le cose per giocare meglio quella singola gara. A volte le sue direttive risentono di questa confusione, non tutti i giocatori in campo sono sicuri al 100% di quello che devono fare».

È andata in questo modo anche nella finale di Champions League 2020/21? Probabilmente sì, e lo dicono i numeri: nella splendida stagione da 61 partite del City, solo in un’altra occasione Guardiola aveva rinunciato a Fernandinho e/o a Rodri dal primo minuto. E poi non ci sarebbero altre spiegazioni per la pessima prestazione del City: anche la lettura emotiva della gara per cui i giocatori del City non erano abituati a certe pressioni, non è pienamente convincente, infatti dei 22 giocatori titolari schierati da Tuchel e da Guardiola, solamente Thiago Silva e Ilkay Gündogan avevano già disputato una finale di Champions League. Uno per parte, armi pari prima del fischio d’inizio. Eppure i Blues sono sembrati molto più quadrati, molto più concentrati e sicuri rispetto a ciò che dovevano fare in campo. Secondo Jonathan Wilson, giornalista del Guardian, questi due aspetti – insicurezza emotiva e tattica – si sono fusi nella mente di Pep, e quindi si sono manifestati nel rendimento della sua squadra: «Una spiegazione più probabile è l’ansia, indotta da tutte le altre sconfitte nelle grandi sfide europee a eliminazione diretta negli ultimi dieci anni. Terrorizzato dalla prospettiva di essere battuto, Guardiola decide costantemente di cambiare qualcosa che possa scongiurare il suo destino. Come Edipo che lascia Corinto per essere sicuro di non dover incontrare mai più i suoi genitori».

Nella mente di Pep, devono aver avuto un peso anche le due sconfitte (su due partite) patite contro il Chelsea di Tuchel nell’ultimo mese e mezzo, in FA Cup (17 aprile, 0-1 a Wembley) e in Premier League (8 maggio, 1-2 all’Etihad). In quelle occasioni, Guardiola ha fatto fatica a scardinare la difesa dei Blues, ed evidentemente ha deciso di dare un volto più offensivo alla sua squadra nella finale di Champione League. O, almeno, questa era la sua intenzione: «Volevo avere la maggior quantità possibile di talento e qualità in campo, così ho spostato Gündogan in un ruolo che ha svolto tante volte nel corso della sua carriera. L’obiettivo era trovare giocatori piccoli, di grande tecnica, tra le linee avversarie». Non ha funzionato, forse anche perché queste mosse tattiche hanno modificato proprio quegli equilibri che avevano permesso al City di raggiungere la prima finale di Champions League della sua storia: Gündogan, schierato in una posizione più avanzata, a ridosso del centravanti atipico De Bruyne, è diventato il miglior marcatore stagionale dell’intera rosa (17 gol); stesso discorso anche per Foden, autore di 16 reti in tutte le competizioni e “costretto” a non giocare più sulla fascia sinistra, affidata invece a Sterling.

Certo, i demeriti e le colpe vanno divisi anche e proprio con i giocatori, a cominciare dallo stesso Sterling: l’attaccante inglese ha vissuto un anno davvero negativo, la sua involuzione tecnica è stata evidente anche nella partita contro il Chelsea; nella notte di Porto, anche Mahrez e Bernardo Silva non hanno brillanto, e persino De Bruyne – uscito nella ripresa per infortunio – è apparso fuori dal gioco. Insomma, i motivi di una sconfitta così netta e meritata, ben oltre la dimensione del risultato, sono molteplici e vari. Lo sono sempre, non solo in questo caso. Questa volta, però, si può dire che Guardiola abbia “aiutato” il destino avverso con delle scelte che hanno sconfessato il suo stesso percorso, proprio come avvenuto tante altre volte in precedenza. In ogni caso, però, questa è la sua essenza, il tratto tipico del suo carattere e del suo modo di approcciare il gioco: ripensandoci bene, la formula che ha portato il City a giocarsi la prima finale è un suo esperimento riuscito bene, una sua invenzione improvvisa nel corso di questa stagione, dopo un avvio a dir poco complicato in Premier League. Se avesse battuto il Chelsea facendo l’ennesima rivoluzione, sarebbe diventato automaticamente il genio capace di cambiare le carte in tavola e sorprendere tutti, per l’ennesima volta. Non è andata così, e ora è l’esatto contrario del genio. Il confine, a volte, è davvero sottile.