La delusione per la mancata convocazione di Moise Kean per i Campionati Europei somiglia molto a quella sensazione che si prova quando la squadra per cui facciamo il tifo vende il nostro giocatore preferito, o magari il giovane a cui ci eravamo subito affezionati – o il veterano con cinquecento presenze alle spalle, dipende dai gusti. Mentre il Paris Saint-Germain fa sapere al mondo che proverà ad acquistare il cartellino di Kean a titolo definitivo e l’Everton spara alto – sui 40 milioni di euro – con le richieste, l’Italia decide che può fare a meno dell’attaccante nato nel 2000 a Vercelli. Non si possono pesare le convocazioni solo con i numeri, ma quelli di Kean con il Psg sono un buon punto di partenza per capire a cosa ha rinunciato il ct azzurro per il torneo continentale: 41 presenze stagionali, di cui 22 da titolare in Ligue 1 e quattro da titolare in Champions; ha realizzato 17 gol in tutte le competizioni, e tra questi ce n’è pure uno bellissimo segnato al Barcellona nei quarti di finale di Champions League.
La stagione appena conclusa è – deve essere, in qualche modo – uno spartiacque nella carriera di Kean, il passaggio a una fase successiva in cui non è più solo una promessa da aspettare in vista di un futuro brillante, piuttosto un attaccante o comunque un giocatore già pronto per misurarsi ai livelli più alti del calcio europeo. Insomma, Moise Kean è già il presente. E quest’anno, a Parigi, ha avuto modo di dimostrarlo anche grazie a due allenatori come Thomas Tuchel e Mauricio Pochettino: entrambi lo hanno considerato fin dall’inizio un giocatore già pronto, non la stella della squadra o l’arma definitiva, ma di certo un elemento importante di una rosa di altissimo livello. Dopo la partita giocata contro il Manhester United, penultimo turno dei giorni di Champions, Tuchel aveva spiegato così l’impiego dal primo minuto dell’attaccante italiano: «Secondo me oggi era praticamente impossibile trovare spazi fra le linee, che è la dote migliore di Angel Di María. Allora volevamo andare ad attaccare la profondità, che è quello che sa fare meglio di Moise. Non è una bocciatura per Di María, semplicemente Kean ha caratteristiche diverse». È evidente che Tuchel abbia Kean messo sullo stesso piano di un altro giocatore offensivo, che poi si tratti di Angel Di María, e non di uno qualsiasi, aggiunge ulteriore significato alla cosa. Tre mesi dopo, a marzo, Pochettino aveva usato altre parole per esprimere lo stesso concetto dopo la vittoria sul campo del Lione: «Icardi non ha giocato ma era stato importante nelle partite precedenti. Oggi è stato il turno di Kean, e anche lui è stato importante». Altro allenatore, altro giro, stessa valutazione. O meglio: stesso confronto con un altro grandissimo calciatore.
Non ci sono più dubbi: quest’anno Kean è diventato un attaccante vero in una grande squadra. Il suo impatto sul gioco è stato considerevole, anche se non necessariamente misurabile con le cifre dei gol segnati, degli assist o altri numeri che finiscono sul tabellino. Il suo è sempre un gioco verticale, elettrico, una fonte di energia per l’attacco, sia negli scatti in profondità sia nelle conduzioni palla al piede. È un giocatore ancora incompleto ma in grado di incidere in una partita in più modi: può occupare diverse porzioni di campo e avere assegnazioni e compiti diversi in base all’avversario, agli altri compagni di squadra, alle necessità dell’allenatore. Può giocare in coppia con un’altra punta come Icardi o fare da centro di gravità per un incursore come Mbappè, o magari muoversi da esterno – il ruolo in cui Mancini l’ha utilizzato in Nazionale – o ancora diventare il finalizzatore di una squadra che costruisce le sue azioni partendo dai movimenti verso il centro di Neymar e Di Maria. Poi ci sono, com’è normale che sia, alcuni limiti, alcuni punti ciechi: Kean, per esempio, va in difficoltà se deve riceve e ripulire palloni scomodi spalle alla porta, magari con un difensore in grado di bilanciare la sua forza fisica (vedi le prestazioni eccellenti di Upamecano su di lui in Lipsia-Psg ai gironi di Champions); e se non può muoversi liberamente in cerca di una zolla lontano dal traffico sembra affogare in spazi per lui troppo stretti.
Ecco, individuare le cose in cui Moise Kean non eccelle vuol dire tracciare quei confini necessari a capire perché Roberto Mancini non lo ha inserito nella Nazionale italiana, cosa c’è o non c’è in Moise Kean che ha convinto il ct a convocare qualcun altro. Perché la scelta di Mancini non è certamente come quella – fantasiosa e non auspicabile – di un Deschamps che decide di lasciare a casa Mbappè, o di un Southgate che preferisce fare a meno di Kane. Se Mancini ha scelto di puntare su altri giocatori, e l’ha fatto nonostante la rosa allargata fino a 26 giocatori, c’è sicuramente un motivo. Magari ce n’è più di uno. Intanto non abbiamo a a disposizione tutte le informazioni che aveva il ct, quindi potrebbero esserci elementi mancanti nell’equazione, o altre variabili imponderabili: può darsi ad esempio che la condizione fisica di Kean non fosse all’altezza delle aspettative, che la positività al Covid di marzo abbia lasciato qualche strascico di troppo, o magari il ballottaggio è stato vinto da altri giocatori – non per forza le due punte Immobile e Belotti, ma anche gli esterni o il jolly Raspadori – considerati più adatti al gioco della Nazionale.
Dopotutto Mancini ha sempre puntato su uno zoccolo duro di giocatori che sono stati confermati più e più volte, ma ha anche allargato le maglie, convocando diversi giocatori a turno che sono stati testati nel sistema di gioco dell’Italia. In questo senso Kean – che in azzurro ha giocato poche centinaia di minuti sparpagliate tra novembre 2018 e la partita con San Marino della settimana scorsa – era forse quello che garantiva meno certezze. Inoltre e scelte in attacco sembrerebbero anche piuttosto schematiche, quindi logiche, in qualche modo: Immobile è il centravanti di riferimento, Belotti la riserva; Insigne e Chiesa gli esterni offensivi, con Berardi e Bernardeschi pronti a dare il cambio. E poi c’è Raspadori. In questo modo il piano B di Mancini è composto da giocatori che sono tutti quantità certe, figure perfettamente definite all’interno del 4-3-3 di partenza.
Ma forse proprio per questo un elemento di rottura come Moise Kean, un attaccante con caratteristiche e picchi diversi da tutti gli altri, avrebbe potuto avere un ruolo in questa squadra, anche solo da alternativa. Del resto parliamo di un pezzo unico nel parco attaccanti dell’Italia: i due centravanti chiamati da Mancini – Immobile e Belotti – negli ultimi anni hanno dimostrato di essere i migliori attaccanti italiani in Serie A, ma allo stesso tempo non sono mai stati davvero determinanti in maglia azzurra. Rispetto a loro, Kean sarebbe anche un’alternativa tattica, un valore aggiunto: quando c’è da muovere una difesa chiusa, magari attirando i centrali in posizioni di campo più esterne, Immobile e Belotti mancano di caratteristiche come quelle dell’attaccante del Psg, che oltretutto avrebbe anche maggiori capacità di risolvere con una giocata individuale una situazione di stallo.
In aggiunta, come detto anche prima, Kean potrebbe rappresentare anche un’opzione in più per il ruolo di esterno, una variazione sul tema soprattutto rispetto alle altre due riserve per i due slot: Berardi e Bernardeschi sono esterni abituati a muoversi prevalentemente a destra guardando il centro del campo più che badando all’attacco della profondità, giocatori a loro agio se possono ricevere il pallone nei piedi per riciclare il possesso e gestire, più che accelerare, l’azione offensiva. In questo contesto, Kean sarebbe stato davvero un elemento di novità, avrebbe potuto rappresentare una variabile significativa in un torneo in cui una certa quantità di imprevedibilità – non solo tecnica, anche tattica e atletica – può fare tutta la differenza del mondo.