Quando aveva 17 anni. Didier Deschamps ha debuttato nel Nantes. Una squadra che, tra gli anni Sessanta e la fine del millennio, è stata una sorta di enclave tatticamente avanzata rispetto al resto della Francia. Ad allenarlo nei Canaries, tra settore giovanile e prima squadra, furono gli ex giocatori e discepoli di José Arribas, il precursore basco che spostò il piano del confronto tattico dai duelli al collettivo, con un gioco più corale della media, con e senza palla. Questo modo di giocare propositivo e coraggioso prese il nome di Jeu à la nantaise, fu una sorta di tratto identitario per il Nantes e un’influenza fondamentale per tutto il calcio francese (Thierry Henry, da allenatore, lo ha citato tra i suoi riferimenti insieme a Wenger e Guardiola). Il giovane Deschamps, centrocampista difensivo instancabile e intelligente, non venne sufficientemente segnato dal quel milieu, anzi, il concetto di “collettivo” predicato da Arribas lo avrebbe rivoltato e preso dal verso opposto. L’allenatore che vediamo oggi, a capo di una squadra spaventosamente forte che vince quasi sempre ma che sembra rendere al di sotto di quello che vale, ha presupposti molto differenti, per certi versi più vicini alla flessibilità e all’equilibrio di Marcello Lippi. Il tecnico di cui è più facile vedere il segno nel lavoro di Deschamps, però, è senza dubbio Aimé Jacquet, il ct campione del Mondo nel 1998. Non tanto per una questione di nozioni apprese o di stili di gioco, piuttosto per il modo di rapportarsi con il compito di gestire un ecosistema così particolare come una Nazionale piena di talento, edificata sull’epicentro di tutte le pressioni, per tornei brevi e imprevedibili. Guardando la Francia di oggi sembra che Deschamps, nel guidare i Bleus, abbia ancora fisso in testa l’esempio della Francia di cui era capitano e del suo allenatore.
Dal momento in cui Aimé Jacquet prese il controllo di una Nazionale disastrata, che non era riuscita a qualificarsi per le due edizioni precedenti del Mondiale (1990 e 1994), la stampa francese seguì il suo percorso con un ostruzionismo esasperato. Era subentrato come vice di Gérard Houiller, il ct che aveva mancato l’accesso a Usa ’94, ma pur avendo vinto tre campionati con il Bordeaux, a metà anni Ottanta, era apparso come un candidato debole. Il suo profilo mediatico non proprio brillante e uno stile di gioco poco attrattivo spinsero i giornali a demolirlo, a restituirne la sua immagine come quella di un personaggio inadatto al ruolo, a volte persino come la caricatura del bravo ragazzo di provincia finito lì per puro caso. «A Parigi ironizzavano anche sul mio accento» avrebbe poi raccontato il tecnico di Sail-Sous-Couzan, nella Loira.
Jacquet, però, aveva in mente un percorso chiaro: nel periodo che conduceva al Mondiale francese del ’98 e passava per l’Europeo del ’96, era fondamentale ripulire l’ambiente e favorire il terreno per la generazione di calciatori che stava emergendo, anche a costo di fare scelte forti: non a caso, Jean-Pierre Papin, David Ginola e soprattutto Éric Cantona vennero lasciati a casa. Come Jacquet, anche Deschamps ha dovuto costruire un nuovo ambiente fin dal primo giorno, dopo lo spettacolo grottesco che la selezione di Domenech aveva offerto al Mondiale in Sudafrica e l’anonimo Europeo del 2012 con Laurent Blanc in panchina. Per l’ex allenatore del Monaco – squadra che Deschamps ha portato in finale di Champions League nel 2004 nonostante la società fosse indebitata fino al collo ed era scampata miracolosamente alla retrocessione d’ufficio – l’unico modo per per ripartire era lavorare sul gruppo: «Quando prepari la lista finale per un Mondiale o un Europeo non scegli mai i ventitré giocatori migliori, questo è certo», ha detto in un’intervista rilasciata al Guardian. «Quello che scegli è il miglior gruppo per andare il più lontano possibile insieme. L’aspetto calcistico non è l’unico che consideri. Devono ovviamente essere giocatori forti, ma ci sono altri criteri come il carattere, la loro predisposizione a vivere insieme ad altre persone, ad andare d’accordo con i compagni. Si tratta di stare insieme 24 ore al giorno per diverse settimane, l’ambiente dove vivono e lavorano è fondamentale».
Deschamps ha accesso al bacino di talento più vasto del mondo, quello di un movimento calcistico che poche settimane fa si è potuto permettere di presentare, a un Europeo Under 21, una Nazionale con Ibrahima Konaté e Dayot Upamecano – i prossimi difensori di Liverpool e Bayern Monaco – come coppia di centrali, e soltanto perché Jules Koundé è stato chiamato dopo due anni di dominio ai massimi livelli per esordire con la rappresentativa senior. Ogni volta, nelle convocazioni della Francia, c’è un nome importante che rimane fuori, o un giocatore poco in forma che prende il posto un altro che – valutando con un metro di giudizio esterno – forse se lo sarebbe meritato di più. Per Deschamps non è un problema perdere della qualità, perché sa bene che la possibilità di abbracciare tutto il talento prodotto dalla Francia, semplicemente convocandolo, è un’illusione da videogame. Di quel collettivo si fa garante e attraverso la sua autorità passano tutte le decisioni controverse, le punizioni. i passi indietro. Quando nel 2018 Adrien Rabiot, escluso dalla lista dei ventitré, rifiutò di rimanere disponibile per una chiamata d’emergenza in caso di infortunio di un calciatore convocato, Deschamps la prese male e lo disse pubblicamente: tempo dopo, il centrocampista della Juve si è riavvicinato al gruppo e ora avrà un posto di rilevo all’Europeo.
Persino il ritorno di Benzema – dopo anni in cui la Francia si è privata per motivi disciplinari di un fuoriclasse assoluto – è stato raccontato in maniera particolare, è stato detto sia avvenuto solo nel momento in cui leader dello spogliatoio lo hanno ritenuto opportuno. Sempre sul Guardian, Marcel Desailly ha evidenziato la capacità di forgiare uno spirito di gruppo come una delle più grandi analogie tra l’esperienza dei due allenatori campioni del Mondo, Jacquet e Deschamps. L’altra, secondo il centrocampista ex Milan, è la pressione a cui erano sottoposti. Il momento più difficile degli ultimi anni, per Deschamps, è stato sicuramente quello successivo all’Europeo perso in finale contro uno sfavorito Portogallo. Nel 2017 Éric Cantona – che da sempre lo accusa di aver manovrato la sua esclusione ai tempi di Jacquet – ha attaccato frontalmente il ct dei Bleus, ritenendo non fosse in grado di sfruttare la quantità esagerata di talento di cui disponeva, e definendolo un «contabile ossessionato dal risultato», piuttosto che «un visionario».
In questi quattro anni, la Francia non è cambiata granché, anzi, è il solito gruppo di giocatori fenomenali che sembra incredibilmente male assortito rispetto al suo valore quando cerca di sviluppare l’azione – se si eccettuano le ispirazioni di Pogba e le ricezioni a centrocampo di un insostituibile Griezmann, il sistema non prevede un centrocampista con compiti di regia. Ma se riesce a far arrivare palla sulla trequarti, tra i piedi dei suoi fuoriclasse, la Nazionale transalpina accende combinazioni e giocate istintive, da calcio di strada. Una squadra il più delle volte chiusa, ma fiduciosa del fatto che ridurre al minimo le possibilità di prendere gol sia il primo passo per assicurarsi la possibilità di farne, al primo metro di spazio o al primo attimo di libertà.
Da sempre, Deschamps mette al centro di ogni discorso tattico l’equilibrio, che per lui non è un fatto organico insito nel sistema delle sue squadre, ma un gioco di compensazioni. Per potersi permettere almeno tre attaccanti in campo contemporaneamente, insieme a Pogba, ritiene di doverli bilanciare con due terzini spiccatamente difensivi, come Lucas Hernández e Benjamin Pavard. Dopotutto Jacquet aveva fatto esattamente lo stesso con Lilian Thuram, che al Parma giocava da centrale di difesa ma nei Bleus copriva la fascia destra. Allo stesso modo, difficilmente vedremo in campo quattro punte dall’inizio, nemmeno se sono tutti trascinatori in alcune delle cinque squadre più forti al mondo: uno tra Rabiot e Tolisso, come ha fatto Matuidi in Russia nel 2018, molto probabilmente giocherà al posto del Coman di turno e correrà anche per far risparmiare fiato a Mbappé. Nel 2010, quando Deschamps ha vinto a Marsiglia un campionato che mancava dai tempi in cui era il capitano, affiancava al suo attaccante più brillante, Mamadou Niang, un lavoratore come Brandão, che oltre a lavorare di sponda si sobbarcava anche i compiti difensivi per permettere al compagno di rimanere più lucido in avanti. «Sono stato il Giroud dell’OM, ho servito il collettivo e ne vado fiero», ha detto la punta brasiliana a L’Équipe. Per questo motivo le sue convocazioni sono sempre molto contestate: non è un caso che Theo Hernández, l’esatto opposto dei terzini che è abituato a impiegare, continui a non comparire nelle liste, o che Moussa Sissoko, equilibratore di fascia già allo scorso Europeo, sia dentro mentre Aouar sia rimasto fuori. È come se i chilometri che ha corso con le sue stesse gambe, insieme a Petit e Desailly, per tenere in piedi il talento offensivo della sua Francia, fossero una prova empirica che ci sia una e una sola strada da seguire.
L’unico modo per capire – anche senza apprezzare – Didier Deschamps è non strapparlo dal suo contesto, quando lo si valuta. Forse è uno dei pochi allenatori in grado tenere insieme un ambiente che negli anni e nei cicli precedenti è sfuggito di mano a tutti, o uno dei pochi che possono guidare dei giocatori così forti da potersi fidare di loro al punto di rimanere sul filo delle partite. In un ecosistema come quello delle squadre nazionali, in cui di episodico non c’è solo il singolo gol, ma il senso di un intero torneo, Deschamps si limita a creare i presupposti migliori. E a vincere. Anche quest’anno, agli Europei, proverà a fare la storia lasciandosela passare accanto.